Tanti papà per Halaucesti

Anni fa un documentario ritraeva la drammatica situazione dei bambini in Romania. Piccoli abbandonati, denutriti, falciati dalle epidemie. Ecco come un gruppo di colle-ghi ha trasformato l’indignazione in un coinvolgente progetto di solidarietà.
11 Aprile 1998 | di

Anni fa la televisione italiana trasmetteva le terribili immagini dei bambini rumeni rinchiusi negli orfanotrofi. Piccoli esseri senza affetto, denutriti, malati, costretti a vivere nell'angusto spazio di una culla, accuditi alla meglio da un personale troppo scarso, senza quel minimo di amore che ogni bambino meriterebbe per il solo fatto di essere al mondo. Immagini che hanno sconvolto le nostre coscienze assopite, ma che almeno in un caso, che qui documentiamo, hanno suscitato una rivolta del cuore, una voglia irrefrenabile di occuparsi di loro.

È nata così un'esperienza speciale, che ha preso il via da un posto insolito: lo stabilimento Fincantieri di Monfalcone (Trieste), dove si costruiscono le navi passeggeri. Un gruppo di lavoratori si è chiesto: 'Come si può rimanere indifferenti?'. Viene in mente don Milani e il suo motto: I care, cioè 'mi interessa', 'me ne importa', 'è cosa mia'.

Il Vangelo partiva dalla vita: 'qualunque cosa farete per uno di questi piccoli...', ma forse il collegamento non venne subito in mente. Erano tutti uomini con alle spalle una lunga carriera di lavoro, avevano due talenti da dare: un genuino senso pratico, tutto friulano, e diverse competenze. Poche parole, e si è passati subito ai fatti. Il gruppo di volontari ha ottenuto di recuperare tutti i pezzi buoni di una nave in dismissione, ha passato al setaccio i depositi degli ospedali per avere letti e biancheria, ha chiesto alle ditte di dare tutte le rimanenze, che noi ricchi dal palato fine non osiamo consumare. Tutti erano invitati a partecipare: comune, parrocchie, scuole, famiglie. Chiunque avesse una competenza, fosse egli medico o muratore, elettricista o ingegnere, era ben accetto. Si raccoglieva ogni genere di prima necessità : dalla pasta allo zucchero, dai saponi alle coperte, dai vestiti alle scarpe, ma anche vecchie caldaie, i prefabbricati del terremoto, vecchio materiale edile. Tutto veniva assemblato, rimesso a posto, riciclato.

Il primo intervento del 1991 è stato di tipo assistenziale: Tir ricolmi di generi di prima necessità  venivano scortati dai volontari fino a destinazione negli ospedali e negli orfanotrofi di Iasi, nella Moldavia orientale rumena, per assicurarsi che nulla andasse perso. La sofferenza dei bambini si leniva per un periodo, ma questo non poteva bastare, bisognava osare qualcosa di più. Appoggiandosi alla Caritas diocesana di Gorizia, i volontari hanno tentato il primo progetto risolutivo: migliorare radicalmente le condizioni di vita dei bambini nell'ospedale-orfanatrofio di Raducaneni, piccolo paese rurale anch'esso nella Moldavia orientale rumena.

I problemi sono arrivati quando già  il ponte di solidarietà  e di affetto tra i bambini e i volontari era costruito. Era il 1995, la vicina guerra in Jugoslavia imponeva alla Caritas diocesana di Gorizia di impegnarsi anche in quelle zone, i volontari avrebbero dovuto continuare da soli in Romania. Come sempre hanno ripreso la loro febbrile attività  di raccolta e di recupero, ma portare il materiale in Romania diventava sempre più difficile. Il trasporto era molto costoso, e ormai non si poteva più attraversare la Jugoslavia; si rischiava di perdere il sudato carico per gli attacchi delle bande di sciacalli. Certo materiale, poi, non poteva essere solo ricavato dal recupero, occorrevano finanziamenti che garantissero la continuità  degli aiuti. A questo punto il contatto con la Caritas antoniana è stato provvidenziale.

Nel frattempo alcuni bambini dell'orfanotrofio di Raducaneni erano stati trasferiti nella Casa dei bambini di Halaucesti dove c'erano le scuole. Ma la nuova sistemazione non era certo il paradiso. Il grande edificio fatiscente ospitava più di 700 tra bambini e ragazzi dai zero ai 18 anni. Una situazione insostenibile: 'L'impatto con la struttura è stato scioccante - racconta C. che preferisce non essere identificato - . I bambini ci morivano in braccio per la denutrizione e la malattia. L'ospedale era lontano, i mezzi di trasporto inesistenti, inutile aspettare i soccorsi. La prima cosa che abbiamo chiesto è che i bambini più piccoli (0-3 anni) fossero trasferiti in una struttura a parte, con una sede più vicina all'ospedale'.

Le condizioni igienico sanitarie della Casa dei bambini erano pessime: gli scarichi perdevano, i poveri giacigli non avevano biancheria, il vestiario veniva lavato a mano o con macchine antidiluviane, e non certo con la frequenza che l'uso delle moderne lavatrici permette. Ricorrenti le epidemie di scabbia e pidocchi. La dieta era povera e poco variata. Il freddo poteva raggiungere anche i 35 gradi sotto zero e l'impianto di riscaldamento era costituito da due piccole e fatiscenti caldaie a legna, che per giunta s'incendiavano per il surriscaldamento. Ma forse la sofferenza più grande era la rigida istituzionalizzazione, la completa mancanza di contatti e relazioni con la realtà  esterna.

L'intervento questa volta era urgente e complesso. Tutto il 1997 è stato dedicato al rapido miglioramento delle condizioni di vita dei bambini e il contributo degli associati al 'Messaggero' è stato determinante. Una dietologa italiana ha riequilibrato l'apporto calorico, inserendo nella consueta minestra dei bambini alimenti ricchi di sostanze nutritive e poco costosi: qualche fagiolo, pezzi di pane inzuppato, fette di patate. Si è migliorata l'igiene personale dei bambini per contenere le infezioni. Due piccoli sono stati addirittura operati all'ospedale Bambin Gesù di Roma. Altri 40 hanno ricevuto per la prima volta un paio di occhiali correttivi. Il prossimo intervento di salute riguarderà  l'apertura di un gabinetto dentistico all'interno dell'orfanotrofio.

Il gruppo dei volontari ha poi effettuato lavori di risanamento ambientale: ristrutturazione dell'impianto di riscaldamento, di un gruppo di servizi igienici e della lavanderia. Sono state acquistate 5 lavatrici e una scorta di detersivi.

Un ulteriore passo in avanti è stato compiuto quando, con la collaborazione della direttrice dell orfanotrofio, si è deciso di adottare il modello della casa famiglia. Un grande salone è stato diviso con il cartongesso in tante piccole unità  abitative, formate da una camera da letto e una zona giorno. In ogni unità  vivevano 5, 6 bambini e un'operatrice fissa. I bambini potevano così fare un'esperienza più simile a quella familiare e sentire meno il peso di trovarsi in una istituzione. Oggi l'orfanotrofio si è aperto all'esterno, i bambini vanno a scuola in paese e sono inseriti nelle attività  comunali.

Un lavoro grande ed efficace ma quanto è costato in termini umani? 'La cosa più difficile da superare - racconta C. - è stato l'impatto con la realtà  dell'orfanotrofio. Un bambino istituzionalizzato ti salta addosso, ti abbraccia, ha continuo bisogno di toccarti, di avere attenzioni. Quando ritorniamo dobbiamo perdere ore e ore a ispezionare le pagelle, i quadernini, le lettere che ci hanno scritto ma che non ci hanno potuto inviare perché i francobolli costano troppo. È un tormento staccarsi da loro'.

Non dev'essere facile improvvisarsi genitori di tutti questi bambini affamati d'amore. Ma poi quando crescono dove vanno a finire? 'È il nostro grande cruccio - risponde C. - . Stiamo pensando di istituire dei corsi professionali per aiutare i ragazzi a inserirsi nella società . Altrimenti la sorte di molti è segnata'.

L'esperienza nata a Monfalcone è un esempio di solidarietà  costruttiva che la Caritas antoniana alimenta con forza ed entusiasmo perché non si ferma di fronte agli ostacoli, è generosa, creativa, segue sempre nuove strade.

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017