Totò, il principe dei comici
Il drammaturgo americano Arthur Miller considerava Totò un formidabile antidepressivo. Un talento che il cinema, per fortuna, ha cristallizzato consegnandolo all’immortalità. E dire che Totò temeva di essere dimenticato.
Antonio de Curtis era un uomo nobile, non solo per l’asseverato lignaggio principesco, ma anche sul palcoscenico, in famiglia, con gli amici, con le persone più sfortunate, con gli «ultimi». Lui che la miseria l’aveva patita sulla propria pelle senza nemmeno il conforto di un qualche giocattolo. Figlio del marchese Giuseppe de Curtis, scapolo impenitente, e della popolana Anna Clementi, di appena 16 anni, bellissima e fatale, il suo unico punto di riferimento affettivo fu, per lungo tempo, solo la nonna materna Teresa.
La prima a scoprire il suo talento quando vide il piccolo imitare un prete intento a dire messa. Il suo piglio istrionico era un modo per tenersi compagnia ovvero «per trasformarsi in qualcuno più felice del bimbo solo che era in realtà», come ricorda la figlia Liliana nel libro Totò mio padre, scritto con Matilde Amorosi per i tipi di Rizzoli.
La sua vita era ormai segnata da quell’inestinguibile credito d’amore che rivendicherà per sempre. Il bisogno di sicurezza si esprimeva nella sua quasi spasmodica ricerca d’affetto, quello del pubblico, dei suoi amori, della famiglia nel perdurante timore di perdere la quale, egli diventerà severo e possessivo. In modo perfino controproducente. Tanto da compromettere il suo rapporto con la moglie Diana. Solo con un’altra donna, Franca Faldini, riuscirà a riannodare i fili della sua vita affettiva anche se il legame profondo con Diana resisterà comunque fino all’epilogo della sua vita.
Dopo la gavetta nei teatrini rionali di Napoli, Totò debuttò a Roma nel 1922 con un repertorio ispirato al comico Gustavo De Marco. La vita allora era durissima. Totò si risolse a fare la maschera al Teatro Jovinelli, come ricorda ancora la figlia Liliana. Poi la sorte ci mise lo zampino. De Marco accusò un malore. Non restava che sospendere lo spettacolo oppure inventarsi un’alternativa. E lui si fece subito avanti dato che conosceva bene il repertorio di De Marco. E fu un successo strepitoso.
La fama e i soldi iniziarono a corteggiarlo. Ma era la famiglia che gli mancava. Quasi per un ghiribizzo del destino, si imbatté in Diana Bandini Rogliani. La conobbe a Firenze. Lei non aveva nemmeno 16 anni. Lui 33. Totò era abbacinato da Diana. Voleva sposarla. Aveva fretta di crearsi quel focolare domestico che non aveva mai avuto.
Totò mette su famiglia
Nel 1933 nacque sua figlia Liliana. Un nome non casuale, che era un omaggio a Liliana Castagnola, attrice e ballerina di grido che si era tolta la vita per amore di Totò. Lui era rimasto così sconvolto da quell’accadimento che, a un certo punto, decise addirittura di mollare tutto per farsi frate. Tanto che si recò al convento di Assisi dove parlò col frate custode. Totò collezionava immaginette sacre, ed era devotissimo di sant’Antonio.
«Teneva una sua immagine in camera da letto, e se aveva un problema di qualsiasi genere si raccoglieva in preghiera chiedendogli, a suo modo, la grazia – rammenta la figlia Liliana nel suo libro –. E aveva tanta fiducia nell’intercessione che, se per caso restava deluso, non riusciva a trattenersi: “Sant’Antonio mio, scusami tanto, ma stavolta ti sei comportato male”, brontolava alla sacra immagine e, in segno di protesta, la girava verso il muro. “Non si tratta così un tuo fedele, un vero amico come sono io”. Dopo averlo tenuto in castigo per qualche ora, mio padre si pentiva e, sentendosi un peccatore, rimetteva a posto l’immagine mormorando: “Caro sant’Antonio, perdonami se ti ho offeso. Non ne parliamo più: vuol dire che la grazia me la farai la prossima volta”».
Dopo gli ultimi grandi spettacoli di rivista C’era una volta il mondo e Bada che ti mangio!, Totò intraprese la carriera cinematografica. Così lavorò con i grandi registi dell’epoca come Mattoli, Monicelli, Comencini, Bragaglia, Rossellini, Steno, Mastrocinque, De Sica, Blasetti, Corbucci, Risi, Lattuada. «Uno dei miei film preferiti è L’imperatore di Capri – confida la nipote di Totò, Elena Anticoli de Curtis, figlia di Liliana –. Per ritrarre la figura del signorino chic di buona famiglia, prese dall’armadio di mamma e di nonna, il cappello fatto a uncinetto, la maglietta e i pantaloni. E inventò un personaggio divenuto celebre. E poi come non ricordare La banda degli onesti dove tre improvvisati falsari, tra i quali Totò, si arrendono alla loro coscienza di persone perbene!».
A penalizzarlo furono film dall’esito talvolta infelice a cui Totò stesso, considerato dai produttori una «gallina dalle uova d’oro», pagava lo scotto di sceneggiature o regie a volte assai discutibili; film «alimentari», accettati perché aveva bisogno di lavorare e di guadagnare per mantenere la famiglia, per non rinunciare ai lussi con cui continuava a compensare, sul piano psicologico, quella ferita, mai sanata, della miseria sofferta in gioventù, ma soprattutto per sostenere una quantità enorme di opere di beneficenza.
Totò diventa dottore
A chi è avvezzo alla commedia di Billy Wilder, di Norman Taurog o di Woody Allen, la comicità di Totò può apparire estemporanea e, a tratti, farsesca. Invece egli incarna il teatro per antonomasia. Nella sua verve, nelle sue interpretazioni e improvvisazioni ci sono i tipi umani dell’antica atellana (farsa del teatro romano antico), c’è l’arguzia di un poeta e comico elisabettiano come Harry Goldingham. La sua capacità di esprimere i sentimenti umani lo avvicina a Rabelais e a Voltaire.
Un riconoscimento postumo è arrivato quest’anno dall’Università di Napoli Federico II che lo ha meritatamente laureato, alla memoria, in Discipline dello spettacolo. A lui devono molto anche Jerry Lewis, Woody Allen, Jim Belushi e Jim Carrey. Da alcuni è stato accostato a Buster Keaton e a Charlie Chaplin. In Totò, che era un raffinato intellettuale – poeta, paroliere, cantante – si sentono gli echi di Corneille e Molière, di Ionesco e Beckett, di Scarpetta e Pirandello. E, infine – o prima di tutto – di Pulcinella e Arlecchino.
Il bastone con cui Totò fustigava cinismo e ipocrisie, erano i suoi giochi di parole, i calembour, le iperboli, i non sense ovvero i doppi e tripli sensi, le espressioni entrate nella vulgata, gli aforismi che conferiscono a una parola o a una frase comune un inusitato guizzo di comicità o di repentina rivelazione.
L’empatia tra il pubblico e Totò dura ancora oggi, ribadisce la nipote Elena Anticoli de Curtis: «Nelle opere degli artisti che lo ritraggono, nella gente che ci riconosce, nei bambini che lasciano caramelle sulla sua tomba. E nel museo che vorremmo finalmente dedicargli».
Cinquant’anni fa l’Italia perdeva, con Antonio de Curtis, uno dei suoi più grandi attori di sempre. Ma verso di lui continuiamo ad avere un inestinguibile debito di riconoscenza. Quell’oblio in cui temeva di cadere si è ricombinato in un tributo alla sua memoria che, generazione dopo generazione, sembra quasi magicamente rinnovarsi. E, certamente, da qualche parte, Totò – Perdinci e perbacco! – se ne sta ancora compiacendo.