The Founder, il Mcfilm
Siamo negli anni Cinquanta del XX secolo, e Ray Kroc, deluso rappresentante di frullatori, incontra i fratelli McDonald in California. Intuisce subito che il loro metodo di preparazione, cottura e vendita istantanea degli hamburger è destinato ad attirare ancora più clienti. Fattori del successo: qualità delle materie prime, confezioni usa e getta, catena di montaggio dei dipendenti, rapidità del servizio, target familiare. Perché non diffondere la formula su larga scala? Ray persuade i proprietari a concedergli la licenza di dirigere nuove filiali. Da un piccolo fast food inizia una sbalorditiva scalata nel mondo del commercio.
Ray non ebbe dubbi sin dall’inizio: quel nome simpatico e fortunato «McDonald’s» doveva essere suo. Dare nome alle cose, anche nelle culture antiche, equivale alla signoria, al potere di governare il mondo. E il nome McDonald è più di una sigla, è l’intera America, è un costume, è l’insegna di una frontiera, che va allargata giorno dopo giorno.
Ray si sente un pioniere, e impara presto le tattiche mercantili più spregiudicate. I contratti si fanno per aggirarli, svuotarli, romperli e riscriverli, e Ray vuole sempre di più. La sua etica si fa cupa, aggressiva, implacabile. Il progetto viene prima delle persone? Il risultato conta più delle relazioni umane?
Il film è disseminato di riferimenti religiosi: i chioschi come piccole chiese, l’ideologia aziendale come religione laica, il guadagno come motivo d’autostima, le filiali come avamposti missionari. Il capitalista ascetico insegue famelicamente il successo non per ostentare uno status sociale, per frequentare salotti aristocratici, o godersi pacificamente la vita, ma per obbedienza a un dovere morale: lavorare bene, far soldi, espandere l’impresa.
La bioetica contemporanea e l’etica degli affari (business ethics) hanno discusso i modelli etici dell’impresa. Dietro alle scelte politico-organizzative (solidarietà oppure liberismo) ci sono visioni diverse della giustizia. In certe prospettive ci riconosciamo da sempre «debitori» verso l’altro, fratelli con lui. In altre ottiche prevale il mito di individui stranieri, indifferenti fra loro o addirittura rivali e competitori, lupi fra lupi, sospettosi e solitari, pronti all’autodifesa, diffidenti dell’ospitalità.
I chioschi di Ray Kroc promettono la gioia di mettere in bocca cose buone, in un posto pulito e sicuro anche per bambini. Ma chi si nasconde dietro quel sorriso smagliante? Che cosa ci attende dietro le luci ammiccanti delle vetrine? Ray non sembra conoscere gli scrupoli morali, l’ansia che t’inquieta per aver barato, il dubbio paralizzante che ti rode quando temi d’aver ferito qualcuno.
La stretta di mano tra galantuomini non vale più nulla. Il doppio volto di Ray è lo stesso del capitalismo: da un lato il patto esaltante siglato in nome del business, e dall’altro l’ebbra avidità di accumulo; c’è l’apprezzabile moltiplicazione dei servizi per tutti, ma c’è anche il rischio della finzione pur di convincere gli azionisti e fidelizzare i clienti.
Il cinema di Hancock ama il biopic, cioè quel genere di film che tratta della biografia di un particolare personaggio realmente esistito. Indimenticabile il ritratto di Walt Disney in Saving Mister Banks, pellicola del 2013 dedicata a «Mary Poppins». Anche lì si sfoggia un’arte della persuasione in tema di diritti d’autore, perché il racconto per bambini divenga film.
Ma The Founder svela anche il patto ambiguo tra regista e spettatore: un’officina dei sogni distribuisce ombre illusorie nelle sale in cui accedono consumatori golosi. Il cinema conquista la tua fiducia, ti ingaggia come partner e poi sempre ti sorprende, nel bene o nel male. Un racconto seducente è ospitale come un drive in. E ti dà da pensare: quale verità è rivelata? Quale inganno è celato?
The Founder, Usa 2016, regia di John Lee Hancock.