Un lavoro per i liberati di Gregoire
La venuta di Gregoire Ahongbonon a Padova quel novembre del 2008 non era passata inosservata. Di lui si sapevano poche cose: che arrivava dal Benin, Paese dell’Africa Occidentale, che era un gommista di professione e che aveva qualcosa come 10 mila malati mentali in cura. L’ultima notizia era che i frati del Santo gli avevano assegnato il Premio Sant’Antonio, per la sezione «Testimonianza». Ce n’era abbastanza per essere presenti alla serata di premiazione, svoltasi all’interno della Basilica del Santo il 14 novembre, con un misto di curiosità e perplessità. Quando pronunciarono il nome di Gregoire Ahongbonon, un uomo piccolo e magro salì i gradini dell’altare, portando al collo una grossa e lunga catena arrugginita, che aveva tenuto fino a quel momento in una borsa di plastica. Una volta sull’altare, porse all’assemblea il lungo giogo – un gesto quasi teatrale ai nostri occhi di occidentali che però non aveva nulla di affettato – e disse: «Migliaia di uomini in Africa vivono legati a una catena, giorno e notte, senza dignità e senza storia». Prese così a raccontare della condizione dei sofferenti mentali in Africa Occidentale. Credenze popolari radicate e la presenza invasiva del vudù dipingono la malattia mentale come una stregoneria, una possessione diabolica. Ai familiari non restano che due strade: abbandonare i sofferenti a loro stessi nella foresta o legarli a ceppi in luoghi isolati, alla mercé di stregoni che li trattano con violenza e infamia così come merita un demonio. I più muoiono di stenti e malattie, nessuno, ovviamente, ritorna dal tunnel della follia.
Qual è la mia pietra?
Un tunnel senza luce in tutta l’Africa nera, almeno fino ai primi anni ’80. Poi a Bouaké, in Costa d’Avorio, succede un fatto destinato a cambiare il corso della storia della psichiatria in quel Paese, e lentamente in tutta l’Africa. «Mi ero trasferito in Costa d’Avorio – racconta Gregoire –. Il lavoro da gommista andava bene e così decisi di comprare dei taxi. Vivevo agiato e spensierato, dedito ai divertimenti, fin quando, inspiegabilmente, persi i taxi in diversi incidenti nello stesso periodo e mi trovai in poco tempo su una strada, abbandonato da tutti. Entrai in forte crisi, riabbracciai la fede cattolica, retaggio della mia infanzia, e feci un pellegrinaggio a Gerusalemme. Lì sentii le parole che mi cambiarono la vita: ogni cristiano apporta la sua pietra per costruire la Chiesa. Qual era la mia?».
Trova la risposta per strada, al ritorno, nel volto magro di un uomo sporco e trascurato, dagli occhi stralunati, che rovista nell’immondizia e che, per la verità, gli fa paura. È un sofferente mentale. «Se ogni uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, anche lui è mio fratello»: così dice Gregoire tra sé e sé, superando ogni remora. È il primo passo, il più importante. Il resto viene da sé: la scoperta di migliaia di uomini legati, la fondazione dell’Associazione San Camillo de Lellis, l’ideazione di un rito di liberazione che Gregoire effettua nei villaggi quando va a prendersi i suoi malati, per sconfiggere la paura della gente e ridare finalmente dignità ai reclusi vivi. Da allora sono passati trent’anni: il metodo «africano» di Gregoire, un misto di fede, amore, vicinanza, affiancato dalle conoscenze e dai farmaci di alcuni medici volontari italiani, ha portato alla liberazione e alla cura di migliaia di persone, con percentuali di successo impensabili perfino in Occidente. Un primato che gli è valso il soprannome di «Basaglia d’Africa», dallo psichiatra italiano ispiratore della legge che ha chiuso i manicomi nel nostro Paese. Oggi i centri di cura e riabilitazione dell’Associazione San Camillo de Lellis sono una decina tra la Costa d’Avorio e il Benin. Decine di migliaia i «liberati».
Il nostro progetto
In questa storia incredibile hanno una parte importante anche i lettori del «Messaggero di sant’Antonio». Nel 2008, appunto, la Caritas Antoniana aveva deciso di investire una somma considerevole, 150 mila euro, in uno dei centri di Gregoire, quello di Bohicon, in Benin, uno dei più recenti, all’epoca l’unico luogo di cura e riabilitazione per la malattia mentale nel Paese. Solo che il centro non riusciva a decollare per le difficoltà economiche. C’era un terreno nelle immediate vicinanze, ricco d’acqua e fertilissimo: se Gregoire l’avesse potuto comprare e convertire in terreno agricolo avrebbe ottenuto il doppio risultato di creare un’opportunità di apprendimento professionale per i suoi malati e produrre il necessario per sostenere il centro stesso e l’acquisto dei medicinali.
Non era il più facile dei progetti poiché il terreno era situato in un luogo isolato, dove non c’erano maestranze e risorse, ed era praticamente invaso da una rigogliosa e vorace vegetazione tropicale: sarebbero davvero riusciti a convertirlo in un terreno agricolo? A mediare il processo di approvazione del progetto da parte di Caritas Antoniana intervenne la Fondazione Saint Camille de Lellis, un’istituzione benefica svizzera, che da anni lavora a stretto contatto con Gregoire. Loro avrebbero seguito sul campo ogni avanzamento dei lavori, rendendosi garanti del buon esito dell’operazione.
Fatte le opportune valutazioni, Caritas Antoniana decise di accettare il rischio; non solo, da quel giorno prese a considerare la malattia mentale una delle povertà più grandi dei Paesi poveri, persino peggiore della miseria: un capitolo di solidarietà tralasciato dalla quasi totalità delle organizzazioni internazionali, che ben rientrava tra le priorità di un’organizzazione che ha a cuore gli ultimi degli ultimi.
Poco più di due anni dopo, quella scommessa è una realtà. «Siamo tornati – scrive Hope Ammann, responsabile della Fondazione svizzera – dal nostro ultimo viaggio in Benin e devo dire che siamo rientrati soddisfatti… Non è stato sempre facile, ma siamo riusciti insieme a realizzare una proposta realistica per le persone affette da disturbi mentali». Hope descrive le difficoltà a effettuare il disboscamento per l’assenza di trattori e altri mezzi meccanici, ma anche quella a realizzare un pozzo sufficientemente profondo da consentire di irrigare oltre 40 ettari durante la stagione secca. Ma poi, seppur più lentamente, i lavori sono proseguiti. Sono stati piantati venti ettari di palme da olio e altri venti tra mais, fagioli, soia, canna da zucchero e manioca. Nel tempo l’attività si è sempre più professionalizzata: è arrivato un agronomo, anch’egli ex malato, un trattore e addirittura un camion per trasportare la merce. Attualmente alla «Ferme d’Agointa», la nuova fattoria, così chiamata dal nome della località, ci lavorano trenta ex malati; i più dopo qualche tempo ritornano ai villaggi e diventano una risorsa perché hanno appreso competenze assai utili per la zona, altri decidono di restare a servizio di quelli che verranno. E così gli ex malati curano i malati, in un mix di accoglienza, amore, lavoro, cura e comprensione che risana e restituisce dignità. «Il nostro lavoro continuerà in questa zona – conclude Hope – crescerà negli anni sulle solide basi create grazie al generoso sostegno della Caritas Antoniana e dei suoi donatori». Chi l’avrebbe mai detto che attraverso un umile gommista avremmo fatto parte di un disegno così insolito e così prezioso?
Il progetto in breve
Acquisto terreno
Disboscamento e recinzione
Piantagione di palme da olio
Costruzione pozzo
Costruzione fattoria e porcilaia
Medicinali
Costo totale: 177 mila euro
Contributo Caritas Antoniana: 150 mila