Una bussola per i lavori di domani
Certe volte le notizie si nascondono dietro alle «non notizie». E così in pochi hanno notato che nel rapporto tra il mondo della scuola e quello del lavoro – gli scenari della nostra normalità – sta avvenendo una rivoluzione: due universi che fino a ieri sembravano opposti, l’uno il baluardo della teoria e del sapere, l’altro della pratica e della produttività, si studiano e si cercano. Ecco perché parlare di scuola a maggio, mese del lavoro, nell’ultimo sprint dell’anno scolastico, diventa d’inconsueta attualità. Se non altro perché migliaia di famiglie con i figli agli ultimi anni della scuola dell’obbligo o di quella superiore stanno per intraprendere l’iter dell’orientamento e scegliere non sarà facile, dal momento che lo scenario del futuro lavorativo del nostro Paese è tutt’altro che chiaro.
Il primo fattore d’incertezza è fotografato da un dato Istat, il peggiore da decenni: la disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni ha raggiunto il 38,7 per cento, mentre aumenta la disoccupazione tra i laureati e continua a decrescere il loro stipendio in entrata. In dieci anni le iscrizioni all’università sono calate del 17 per cento, e stanno, invece, progressivamente aumentando quelle ai licei linguistici, scientifici applicati e istituti tecnici, tutte scelte spendibili subito sul mercato del lavoro: una svolta epocale in un Paese che vedeva nei suoi figli «dottori» un’occasione di riscatto.
Altri dati incoraggiano la tendenza verso scelte orientate al lavoro: l’indagine Excelsior di Unioncamere e ministero del Lavoro attesta che sarebbero state ben 65.500 le figure da assumere, circa il 16 per cento del totale, previste per il 2012 ma segnalate dalle imprese come introvabili. Si tratta di figure specializzate, in molti casi di alto profilo, segno che il lavoro c’è se si individua il percorso giusto. Dati che sollevano domande cruciali: meglio la laurea o il diploma, meglio una cultura più generalista o una più specialistica, meglio scegliere con il cuore o con la testa, meglio cercare di entrare subito nel mercato del lavoro o costruirsi un percorso tagliato su misura? Non si può rispondere a nessuna di queste domande se prima non si inquadra il problema nel contesto più vasto del cambiamento del mercato del lavoro a livello globale. Almeno così la pensa Stefano Micelli, professore di Economia e gestione delle imprese all’Università Ca’ Foscari di Venezia: «La disoccupazione non è soltanto un problema italiano, riguarda tutto il mondo. Non siamo i soli a cercare soluzioni. Oggi il mercato del lavoro è globale, si confronta con culture diversissime e i nostri schemi sono saltati. Siamo in una fase di grande discontinuità, di veloci mutamenti; i lavori di oggi non saranno quelli di domani. Un dato da tener presente nella scelta del proprio percorso».
Detta così fa un po’ paura, in realtà guardare in faccia il cambiamento può dare ai ragazzi e alle famiglie delle buone dritte per dominare il futuro. A partire dalla prima: se il mercato del lavoro è così mutevole «l’orientamento che coniuga la ricerca dei propri talenti alle possibilità di formazione e di lavoro diventa importante fin dalla culla – afferma Valeria Friso, consulente ed esperta di orientamento –. Non è più un’operazione da riservare ad alcuni momenti cruciali di scelta, come la fine di un ciclo scolastico, ma diventa un processo in divenire che continua per tutta la vita». Già da tempo si è diffusa la consapevolezza che, a differenza del passato, le conoscenze tendono a invecchiare precocemente, e che c’è quindi bisogno di una formazione continua che inizi dai banchi di scuola e che si protragga sulle scrivanie degli uffici e nelle fabbriche. Solo così ci si allena a cogliere le opportunità che via via si creeranno.
I passepartout del futuro
Nessuno a priori può stabilire il percorso migliore per arrivare all’obiettivo lavoro, ma il quadro fin qui fatto ci permette di raccogliere alcuni indizi, compiendo una ricerca alla Sherlock Holmes.
Il primo suggerimento è il più immediato: se il mercato del lavoro è globale, la conoscenza delle lingue e delle culture diventa fondamentale. «Non basta aver studiacchiato un po’ d’inglese – afferma Micelli –. Sarebbe utile vivere delle esperienze di lavoro all’estero, meglio ancora se in contesti lontani come l’Asia o l’America Latina. I giovani dovrebbero farsi carico di una nuova sensibilità, essere consapevoli delle nuove dinamiche del lavoro».
La prospettiva internazionale permette di cogliere anche i settori su cui puntare. «Nonostante siamo in crisi – ha affermato Aldo Cazzullo, giornalista, alla presentazione padovana del suo ultimo libro L’Italia s’è ridesta (Mondadori) – ovunque io vada nel mondo c’è una grande richiesta d’Italia, persino nei Paesi a forte crescita: il nostro cibo, il nostro stile, le nostre manifatture, la nostra cultura, il nostro Paese che è il più bello del mondo: un patrimonio che nessuno ci può copiare. Di fronte al made in Italy si spalanca la possibilità di un mercato immenso».
Una prospettiva che Micelli traduce nella necessità di cambiare approccio nel modo di pensare la formazione e il lavoro: «In questa nuova fase di discontinuità, dove le potenzialità di sviluppo ci sono ma sono tutte da reinventare, non ci si può aspettare che fuori da scuole e università ci sia uno stuolo di aziende pronte ad accogliere i nostri giovani. Occorre una buona dose di imprenditorialità, che non significa solo capacità di fondare un’azienda, ma di prendere in mano la situazione, di saper affrontare i problemi, di sviluppare nuove idee, tutte abilità indispensabili alle aziende che si stanno internazionalizzando, la parte più evoluta del nostro sistema produttivo». Nel bagaglio del lavoratore di domani occorrono anche le soft skills, le abilità relazionali: «Fatta salva una preparazione tecnica di base – afferma Simonetta Manzini, responsabile dell’Osservatorio giovani e lavoro della Fondazione Istud –, ciò che più ricercano le aziende sono candidati capaci di lavorare in gruppo, proattivi, disponibili a mettersi in gioco in un’organizzazione. E invece spesso i giovani non conoscono gli ambienti di lavoro, tendono a essere autoreferenziali, poco inclini a una visione d’insieme».
In questa prospettiva nuova rientra anche la riabilitazione della cultura del fare, tipica della nostra manifattura, famosa in tutto il mondo: «Non si tratta di un ritorno ai vecchi laboratori artigiani – continua Micelli – ma del recupero della tradizione nel segno dell’innovazione, possibile grazie alla rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo. Oggi ci sono internet, i social media, le stampanti 3D, i laser cutter, una serie di tecnologie che mescola in maniera straordinaria il digitale e l’analogico, quella che oggi viene chiamata “manifattura digitale”. Questa rivoluzione difficilmente sarà fatta dalle industrie tradizionali, ma da nuove start up (germi di aziende ad alto contenuto tecnologico, ndr)».
Questo mondo in fermento e in veloce mutazione non premia una preparazione troppo specialistica – ritenuta in passato una carta vincente –, ma chi ha un set di competenze e di conoscenze ibride, trasversali: «La tecnologia accanto alle materie umanistiche – spiega Micelli –, la capacità di fare accanto a quella di pensare, e poi la conoscenza delle aree più promettenti di sviluppo del nostro Paese: oltre al campo della manifattura, quello dell’economia verde, del turismo e dei beni culturali». Campi molto ampi in cui tutti possono individuare il proprio posto, senza rinunciare alle aspirazioni ma semplicemente coniugandole con le opportunità.
In questo contesto, la questione se sia meglio una laurea o un diploma è forse un falso problema: è preferibile il percorso che porta il ragazzo a sviluppare al meglio le proprie potenzialità, al di là delle aspirazioni familiari e del marketing dell’orientamento. Di sicuro la laurea continua a mantenere i suoi vantaggi, nonostante i segnali di crisi: «Se è vero che da dieci anni a questa parte sta diminuendo il tasso di occupazione dei laureati – conferma Andrea Cammelli, direttore del consorzio interuniversitario AlmaLaurea –, è vero anche che esso è di dodici punti superiore a quello di un diplomato. Nell’arco della vita attiva un laureato guadagnerà il 50 per cento in più rispetto a un diplomato. Il vero rischio di questa crisi è che vadano avanti negli studi non i più bravi, ma “quelli che possono permetterselo”, impoverendo un Paese che è già agli ultimi posti come numero di laureati tra i membri dell’Ocse».
Un Paese a due velocità
Resta da capire se questa rivoluzione in atto trovi in Italia un sistema formativo e produttivo all’altezza della sfida. «Abbiamo bisogno di una scuola e di un’università che saldino molto di più la teoria con la pratica – continua Cammelli –, altrimenti rischiamo di fare un buco nell’acqua». E ciò, nonostante lo sforzo compiuto dalla riforma Moratti di aprire agli studenti maggiori possibilità di fare tirocini in azienda. La situazione del nostro sistema formativo è in realtà molto frastagliata: «I dati dimostrano, per esempio, che nel medesimo corso di laurea ci sono università in cui il 70 per cento degli studenti fa stage in azienda, mentre ce ne sono altre in cui la percentuale è pari allo zero: nel primo caso troviamo professori e aziende che lavorano in sinergia, nell’altro si vive in una torre d’avorio, isolati dal mondo» spiega il direttore di AlmaLaurea. Una discontinuità che troviamo di riflesso anche nelle aziende: «Nel nostro tessuto produttivo, fatto di piccole e medie imprese – spiega Simonetta Manzini –, molte di esse non hanno ancora saputo evolversi, guardando ai mercati esteri e dandosi un’adeguata struttura manageriale.
Un’arretratezza che incide sulla capacità di valorizzare le risorse di qualità, quindi anche i laureati, e di mettersi in sinergia con il mondo della formazione e della ricerca». La specularità delle situazioni porta a supporre che mai come di fronte alle nuove sfide la scuola abbia bisogno del lavoro e il lavoro della scuola. «Oggi si sta facendo strada una nuova consapevolezza – continua Micelli –: solo chi fa, chi ha “le mani in pasta”, può innovare. Non si tratta, quindi, di adeguare la scuola alle esigenze del mondo del lavoro, ma di essere insieme là dove si inventano cose nuove e si raccontano cose nuove, per provare a costruire il futuro».
Qualcosa, per fortuna, si muove, seppure in modo confuso ed episodico come succede in tutte le nuove tendenze.
Due gli esempi sufficienti a dimostrare la tesi. Il primo viene dal pubblico: si tratta del progetto Fixo (Formazione innovazione per l’occupazione), rifinanziato per il triennio 2011-2013, creato dal ministero del Lavoro, in partnership con quelli dell’Istruzione e Gioventù, per favorire il passaggio dalla scuola e dall’università al lavoro ed evitare il mismatch, cioè l’incongruenza tra titolo di studio e occupazione, attraverso tirocini di orientamento e formazione, percorsi d’inserimento lavorativo, contratti di alto apprendistato, supporto all’autoimprenditorialità. Il progetto coinvolge settanta università, 365 istituti di scuola secondaria e le Regioni. Il secondo esempio viene dal privato, nasce per iniziativa di Confindustria (vedi articolo successivo) e ha il compito di segnalare tutte le esperienze positive esistenti di reti tra scuole e imprese; il fine è mettere a sistema le buone pratiche già attive sul territorio, per agevolare la transizione tra la scuola e il lavoro, meglio collegare la domanda con l’offerta e rafforzare la collaborazione. Non c’è dubbio, tra novità e lenti cambiamenti, la strada dell’orientamento è lunga e tortuosa. Ma il problema non riguarda solo i giovani, è una sfida per il Paese. «Abbiamo l’obiettivo – conclude Valeria Friso, la consulente –, ma il percorso non è garantito. Meglio attrezzarsi con una buona bussola».
Dalla teoria alla pratica
Scuola e impresa a nozze
di Luisa Santinello
Così diversi, così simili. Lontani, ma anche vicini. Nessuno dei due può sopravvivere se l’altro muore. Stiamo parlando di scuola e mondo del lavoro, frecce di uno stesso arco. Si dà il caso, però, che talvolta queste frecce prendano traiettorie inaspettate e finiscano per perdere di vista il bersaglio, un po’ come è capitato in Italia negli ultimi anni. A insegnamenti sempre più teorici e docenti burocrati è corrisposta una managerialità chiusa in se stessa e forse troppo prudente.
Risultato: l’assenza di comunicazione tra le due realtà ha generato un mismatch, cioè un mancato incontro di domanda e offerta di lavoro.
«Gran parte dei giovani ha un’idea distorta del mondo dell’impresa – avverte Claudio Gentili, responsabile di Education, branca di Confindustria che si dedica alla formazione delle nuove generazioni –. Colpa di un modello educativo idealistico che guarda al lavoro come traguardo finale di un processo formativo». Contro questo scollamento, tuttavia, qualcuno si è dato da fare. A monitorare le prime inversioni di marcia è stata proprio Education Confindustria. «Grazie a un recente censimento eseguito in tutto il Paese – continua Claudio Gentili – abbiamo contato 93 poli tecnico-professionali, ovvero reti tra istituti tecnici e imprese che condividono laboratori e progetti di ricerca».
A quanto pare, dunque, i matrimoni scuola-impresa oggi sono una realtà. Basti pensare al Progetto Rosa, promosso nel 2010 dal Club dei 15 (che riunisce le associazioni industriali territoriali con più alta vocazione manifatturiera, aderenti a Confindustria): «Ogni associazione ha attivato un gemellaggio con un istituto tecnico della sua zona – aggiunge Gentili –. Obiettivo: promuovere la formazione di profili tecnici, oggi tanto richiesti dalle aziende, e convincere anche le ragazze che quello del perito non è un mestiere riservato ai maschi». Un altro esempio di integrazione scuola-lavoro è l’iniziativa Employability 2.0 di Sky, in collaborazione col Consorzio Elis, che, basandosi su una logica di company rotation, lo scorso anno ha offerto a cento neolaureati un’assunzione di ventiquattro mesi, da spartire in tre diverse aziende del Consorzio. Il messaggio è forte e chiaro: per crescere bisogna cambiare. «In futuro il lavoro sarà sempre più instabile – prevede il dirigente di Confindustria –. Ecco perché è importante diffondere la cultura della mobilità». E allora meglio adeguarsi fin da giovani, come fanno in Germania. «Prendiamo spunto dai co-operative bachelor, corsi di laurea triennali che alternano quattro semestri in aula e tre di apprendistato in azienda», propone Claudio Gentili. Peccato che un sistema ibrido come questo richieda al corpo docente una mentalità particolarmente flessibile; «motivo per cui – conclude il direttore di Education – in Italia anche gli insegnanti dovrebbero svolgere stage aziendali. Come possono orientare i giovani al mondo dell’impresa, se loro stessi ne ignorano le potenzialità?».
A lezione di mentalità
Di tutte le realtà che in Italia si occupano di formazione, la Fondazione Sodalitas è una delle più impegnate. Non tanto perché da quando è nata, diciotto anni fa, ha raccolto intorno a sé novanta imprese che offrono lavoro a 800 mila persone e rappresentano il 30 per cento del Pil nazionale, ma più che altro perché dal 2000, tramite il progetto Giovani&Impresa, ha spiegato un ventaglio di partnership, corsi, seminari e programmi educativi volti a sviluppare una mentalità imprenditoriale nelle nuove generazioni. Le proposte rivolte a scuole superiori e università spaziano dalla settimana di lezioni, per imparare l’abc aziendale, al corso intensivo di due giorni, che mira a educare i giovani alla responsabilità sociale d’impresa. E ancora, dalla Giornata Scopritalenti – che ogni anno presenta un gruppo di ragazzi selezionati a un parterre di aziende – fino al mentoring formativo, inaugurato nel 2012 da Ubs. Per l’occasione la banca d’affari svizzera ha «adottato» due classi dell’Istituto Curie-Sraffa di Milano. «Il percorso lungo due anni ha coinvolto quarantatré ragazzi e tredici manager di Ubs – ricorda Giuseppe Sgroi, responsabile di Giovani&Impresa per Sodalitas –. A ogni mentor erano affidati quattro studenti. Tra lavori di gruppo, testimonianze e simulazioni di colloqui, il primo anno si è concluso con la consegna a ogni alunno di una scheda diagnostica, ricca di suggerimenti sul percorso da intraprendere dopo il diploma».
Dalla finanza passiamo all’elettronica. Un’altra azienda che ha fatto della formazione il suo fiore all’occhiello è Siemens. Tramite il Global enterprise project (Gep), dall’autunno 2012 la multinazionale tedesca che opera nei settori dell’industria, dell’energia e della sanità ha messo a disposizione di alcuni istituti superiori milanesi cinque manager volontari, ciascuno incaricato di svolgere entro l’anno scolastico una lezione sulla globalizzazione e altri quattro interventi. L’intento è di aiutare le nuove leve a sviluppare una mentalità imprenditoriale, intesa come scelta consapevole di un percorso. «Non ci aspettiamo risultati immediati – assicura Liliana Gorla, responsabile delle risorse umane di Siemens Italia –, ma puntiamo a infondere nei ragazzi conoscenze pratiche, sensibilizzandoli ai bisogni delle aziende. E ricordando loro che, in fondo, ognuno è imprenditore di se stesso».
Il futuro però non si costruisce solo educando la mente. Sarà per la vocazione al lavoro manuale che contraddistingue Leroy Merlin, fatto sta che per il gruppo francese, specializzato in bricolage e fai da te, l’allenamento sul campo resta il primo strumento di crescita professionale. Lo dimostra il Percorso allievi capo settore, per il quale ogni anno l’azienda seleziona – tramite il proprio database on line Lavoro.leroymerlin.it – un gruppetto di neolaureati da inserire in uno dei quarantasette punti vendita italiani. «Affiancati da un tutor, in diciotto mesi i nuovi arrivati imparano a conoscere il cliente, a organizzare un reparto e a gestirne l’aspetto commerciale», racconta Laura Borghini, responsabile comunicazione interna e istituzionale Leroy Merlin. A formazione ultimata, il collaboratore diventa manager, e l’azienda ne valuta il trasferimento in un altro negozio. Non è un caso che oggi le qualità più apprezzate in un candidato – dal gruppo francese ma non solo – siano flessibilità e apertura mentale. «Al di là del titolo di studio – conclude Laura Borghini –, noi guardiamo alle passioni dell’individuo, allo spirito di iniziativa e, soprattutto, alla capacità di imprimere la propria personalità».
Da grande farò…
«Da grande farò il pompiere!». Era il 1975 quando un buffo draghetto munito di casco antincendio fantasticava sul suo futuro nel cartone animato Grisù, trasmesso da Raiuno. Se c’era una dote che al simpatico protagonista, creato dalla matita dei fratelli Nino e Tony Pagot (autori, tra l’altro, di Calimero), proprio non mancava, quella era la determinazione per realizzare i propri sogni. Ma all’epoca non c’erano crisi economica e disoccupazione a complicare le cose. Chissà se oggi il testardo Grisù si sarebbe adeguato a fare un altro mestiere, pur di sbarcare il lunario. O se, come molti suoi coetanei contemporanei, avrebbe finito per perdersi tra corsi di laurea, master, stage e lavoretti occasionali. La vita non è un film, tanto meno un cartone animato. Ma sognare non costa nulla. L’importante è farlo tenendo i piedi saldi a terra. Lo sa bene Agostino Trotta, diciottenne iscritto al quinto anno dell’istituto tecnico industriale Medi di San Giorgio a Cremano (Napoli) che, a poche settimane dal diploma, ha sostenuto un colloquio in una multinazionale per un’esperienza formativa di due anni a Berlino. E mentre aspetta una risposta dall’azienda, ha già in mente il piano B: iscriversi al corso di laurea in ingegneria delle telecomunicazioni all’Università Parthenope di Napoli e svolgere quanti più stage possibili, per completare la formazione e tenersi aggiornato. Lavorare oggi per guadagnare domani è il suo motto. «Tra una decina di anni mi vedo a progettare cantieri e sviluppare tecnologie per una grossa azienda». Nel frattempo, Agostino accumula esperienze e saperi: «Sono stato cameriere e operaio in cantiere. Capitano di una squadra di pallavolo per sette anni e volontario della protezione civile nel mio comune. Tutti lavori che mi hanno permesso di maturare competenze di problem solving (risoluzione dei problemi) e team working (lavoro di squadra), utilissime anche in azienda». Il ragazzo si definisce un irriducibile internauta, perché finora ha scoperto corsi e offerte di lavoro «smanettando» su internet. In più, da due anni frequenta delle lezioni d’inglese extrascolastiche: «Giusto qualche ora alla settimana, perché l’inglese è la lingua del futuro». Se potesse tornare indietro nel tempo di quattro anni, tuttavia, Agostino non cambierebbe una virgola del suo percorso di studi: «Mi iscriverei di nuovo all’istituto tecnico, perché prepara i suoi studenti al mondo del lavoro».
A qualche centinaio di chilometri dalla provincia partenopea, inizia a pensarla così anche Gioia Azzalini, 28 anni appena compiuti, che, nonostante la maturità classica e la laurea specialistica in filologia moderna all’Università Cattolica di Milano, oggi è ancora senza un contratto. «A 18 anni non ero in grado di scegliere il percorso di studi che mi avrebbe aperto la strada al mondo del lavoro. Forse frequentare qualche lezione universitaria mi avrebbe aiutata a chiarire le idee. Da sempre sognavo di lavorare nel campo della promozione culturale. Eppure, agli incontri scolastici di orientamento mi consigliarono scienze della navigazione marittima! Ci risi sopra, quindi optai per una facoltà umanistica, ai miei occhi più varia di quelle tecnico-scientifiche». Laureata in corso, Gioia comincia a spedire curricula. «Ogni cento aziende contattate, solo una decina rispondeva. E l’esito era sempre negativo». Le settimane diventano mesi, Gioia non può più aspettare. Per un anno svolge il servizio civile nella biblioteca di Sondrio, suo paese natale. Poi vengono tre mesi di supplenza in una scuola media del paese lombardo: ironia della sorte, la professoressa deve vedersela proprio con una classe di terza alle prese con la scelta della scuola superiore. «Su diciannove ragazzi, undici hanno optato per un istituto agrario, perché affascinati dall’immagine moderna e tecnologica che questa scuola ha sfoggiato all’ultimo open day (giornata di incontro tra studenti e aziende). Con un simile criterio di preferenza, vedremo tra cinque anni cosa ne sarà di loro».
Pianificare il proprio futuro a 13 anni non è facile, ma in fondo scegliere significa anche crescere imparando a non fossilizzarsi sui desideri, proprio come ha fatto Luca Viscardi, ventiseienne di La Spezia, che dopo la laurea triennale in ingegneria meccanica al Politecnico di Milano, ha capito quanto spirito di adattamento e umiltà contino più di tanti corsi specialistici. Prima di firmare un contratto a tempo indeterminato in un’azienda di automotive conosciuta tramite l’università, il giovane ligure ha svolto uno stage di sei mesi nel reparto progettazione di un’azienda fiorentina leader nella produzione di turbine industriali. Quindi, altri sei mesi nell’ufficio tecnico dell’attuale datore di lavoro. «Ho scoperto che amo le materie pratiche. Ecco perché alla laurea specialistica, perlopiù teorica, ho preferito l’esperienza in azienda». Oggi Luca Viscardi si ritiene fortunato, perché svolge un lavoro dinamico e gratificante che lo porta a viaggiare spesso, ma che gli permette anche di mantenersi in una metropoli come Milano. Baciato dalla fortuna? Forse sì, ma anche la dea bendata da sola non basta. Agli amici disoccupati che gli chiedono consigli, Luca risponde: «Ho visto persone molto più preparate di me venire “liquidate” per via del loro carattere. Studiate e lavorate, dunque, ma senza pretendere troppo. Cercate buone relazioni col prossimo e ricordate che un pezzo di carta in più non vi rende superiori».
Per quanto abbia deciso di proseguire gli studi in ingegneria gestionale al Politecnico di Milano, anche Diletta Invernizzi è d’accordo. «Usciamo dall’università e la formazione ricomincia daccapo», conferma la ventiduenne che l’anno scorso ha optato per la laurea specialistica, dopo aver frequentato nella sua università un corso organizzato dalla Fondazione Sodalitas. Una full immersion di sette giorni per avvicinare i giovani al mondo del lavoro, con tanto di lezioni su come compilare un curriculum e simulazioni di colloqui tenuti da manager in pensione. «Ho imparato a valorizzare le mie attitudini e a non procedere per inerzia – conclude la ragazza –. Poco importa se non ho ancora le idee chiare su quel che voglio fare da grande. Ho saputo di alcune multinazionali che offrono ai neolaureati la possibilità di ricoprire tanti ruoli diversi nell’arco di due anni. Ecco il mio obiettivo: prima di scegliere voglio conoscere ciò che scelgo».
Strumenti di orientamento
almaorientati su www.almalaurea.it
www.universita.it
Francesco Profumo, ministro uscente dell’Istruzione
Sistema formativo: a che punto siamo?
Msa. Le iscrizioni alle superiori hanno favorito licei linguistici, scientifici applicati e istituti tecnici: che giudizio ne dà?
Profumo. Molto positivo. Il Paese dimostra di essere vitale, capace di analisi e di reazione, concreto e coinvolto nel futuro dei propri figli. Un Paese che ha capito che la base industriale è una parte integrante del nostro sviluppo e ha deciso di investire in quella direzione. Se anche la politica avesse la stessa capacità di reazione…
Come avete affrontato il problema di formulare un sistema educativo più adeguato ai tempi e alle esigenze del tessuto produttivo?
La strategia complessiva è stata quella di avviare processi con l’obiettivo di formare giovani più competitivi rispetto a un mercato del lavoro che non è più nazionale ma europeo. Abbiamo puntato su tre elementi: l’apprendimento delle lingue, il sostegno alla formazione tecnico-professionale sui due livelli, quello degli istituti tecnici e professionali ma anche quello degli istituti tecnici superiori che sono percorsi paralleli all’università. Il terzo elemento è l’investimento nella formazione continua, che permette agli adulti di aggiornare le proprie conoscenze più volte nel corso della vita.
L’Italia però rimane un fanalino di coda sia per numero di diplomati che di laureati in Europa. Perché continua questa anomalia?
Se si leggono i dati alla luce della nostra demografia negativa – il numero dei diciannovenni è drasticamente calato negli ultimi anni – si vedrà che in realtà il numero di diplomati e laureati è in leggera crescita. Abbiamo piuttosto un problema di efficienza: negli altri Paesi arriva alla laurea il 90 per cento degli iscritti, nel nostro Paese appena il 55,6 per cento. Credo sia necessaria una maggiore attenzione all’orientamento e all’interazione tra scuola e azienda.
Come avete affrontato l’esigenza di favorire l’incontro tra giovani alla fine del percorso formativo e aziende?
Innanzitutto, potenziando l’orientamento in uscita. Sono ormai moltissime le università che organizzano i career day, in cui vengono coinvolte molte imprese. Il secondo strumento è il tirocinio, che ormai è entrato nella cultura dell’università italiana.
C’è chi l’accusa di non aver investito abbastanza in università e ricerca.
Penso che sia falso. Nel corso del governo abbiamo fatto bandi di ricerca per 2 miliardi, solo che i finanziamenti sono stati dati su base competitiva e non a pioggia come un tempo, e questa cultura in Italia è ancora agli inizi.
Quali sono le sfide del prossimo esecutivo?
Credo che il Paese non abbia bisogno di altre riforme quanto di far funzionare meglio i sistemi già messi in atto. Ma si deve essere capaci di valutare di più i risultati per ca