Una casa dopo il genocidio
Sorridono davanti alla loro casetta dai mattoni di terra e dal tetto di lamiera. Sono Sofie, Andrè ed Emma, orfani di entrambi i genitori, a cui la diocesi di Ruhengeri, nel distretto di Musanze, nel Nord del Rwanda, ha affidato un alloggio, grazie all’aiuto della Caritas Antoniana. «Immagino che a voi sembri poca cosa – anticipa il direttore della Caritas diocesana locale, padre Richard Dessureault, il quale, canadese di origine, ben conosce i nostri standard di vita – ma per loro è una reggia». Fino a ieri avevano come riparo una foglia di banano e, al massimo, un telo di plastica. Erano esposti a pericoli e violenze di ogni tipo proprio perché piccoli, poverissimi e senza un adulto alle spalle. Sono quelli come loro, orfani della povertà e dell’aids, gli ultimi frutti di una delle più grandi tragedie dell’umanità, il genocidio che ha coinvolto le due maggiori etnie, gli hutu e i tutsi, avvenuto nell’aprile del 1994 e tuttora ferita aperta nella società rwandese.
In poche settimane morirono 800 mila persone. Fu massacro tra vicini e parenti, convissuti in pace fino a quel momento; massacro tra fratelli, allucinato e cruento, con coltelli e maceti, asce e martelli. Una tragedia – alcuni dicono – organizzata a tavolino, soffiando sul fuoco dell’odio etnico, alimentato da interessi stranieri. Le donne sopravvissute furono violentate e i figli generati dall’odio – oltre cinquemila – furono in maggioranza uccisi. Centinaia di migliaia di rifugiati ripararono nei Paesi limitrofi – Congo in testa che all’epoca si chiamava Zaire –. Oltre 150 mila migrarono nelle montagne.
Ruhengeri, vicino al confine con Congo e Uganda, divenne rotta di passaggio di folle di disperati. L’odio distrusse tutto: dai servizi alla già debole economia. Quando ritornò il silenzio sopra i cadaveri, le cui ossa sono ancora visibili, in alcune chiese e luoghi pubblici, nella stessa posizione del momento del massacro, il Paese si svegliò attonito, mortificato, con un cancro nell’anima e poverissimo. I profughi tornarono in cerca delle loro case, ma non trovarono più nulla.
Padre Richard diventò direttore della Caritas diocesana di Ruhengeri proprio all’indomani del genocidio. Una diocesi immensa: 1756 chilometri quadrati, 900 mila abitanti, 11 parrocchie ognuna delle quali suddivisa in 54 unità territoriali. Padre Richard viveva in Rwanda dal 1959, «quando c’era ancora il re», aveva fatto il parroco e il formatore ma ora, di fronte a un tale compito, si sentiva come uno che ha in mano un innaffiatoio ma ha davanti il deserto. «Abbiamo iniziato studiando la situazione, individuando i bisogni primari e organizzando una rete di ascolto e servizio che dalla comunità di base – realtà vivacissima – arrivasse fino alla diocesi».
Nel deserto nacquero i primi fili d’erba: distribuzione di cibo e vestiti; poi, un campetto: i dispensari per la salute e le case di accoglienza per gli orfani; e finalmente le colture, non solo in senso metaforico: «Abbiamo creato un fondo di microcredito per aiutare la gente ad avviare piccole attività agricole o di allevamento». E via di seguito con la formazione umana e professionale dei ragazzi di strada, i campi comunitari, l’assistenza ai malati terminali di aids e quella legale alle vittime del genocidio. Tutto con l’aiuto delle altre Caritas nazionali, in particolare quella tedesca, e di altre organizzazioni europee, tra cui anche Caritas Antoniana. «Un lavoro, quello della Chiesa in Rwanda – spiega padre Richard – che è stato di fatto il primo atto concreto di pacificazione, la prima base su cui poggiare la speranza. Essere costretti a incontrasi, a lavorare insieme, a commerciare, a comunicare ridà a tutti la speranza di poter convivere, di poter guarire dentro. Ho visto gente rimasta sola al mondo ricominciare tutto daccapo proprio grazie alla generosità verso gli altri, anche quelli dell’opposta etnia. Ho celebrato matrimoni misti. Ho visto infermieri hutu e tutsi combattere insieme per salvare una vita».
Al mosaico di bene mancava però ancora un tassello: la ricostruzione delle case dei più poveri, in maggioranza bambini rimasti soli o donne con molti figli. In tutto 216 nuclei familiari debolissimi, per un totale di 1296 persone che, a distanza di tredici anni dal genocidio, vivevano ancora sotto i teli di plastica. Quel tassello è finito nelle mani di voi lettori, che attraverso Caritas Antoniana avete donato 8 mila euro. Una piccola cifra per dotare ogni casetta di un tetto di lamiera – vero lusso per il luogo – due finestre e una porta. Il resto, legno, mattoni di terra, manodopera l’ha messo la gente. Un dono dai risvolti sorprendenti, come testimonia Faustine Havugimana, un operatore locale della Caritas diocesana di Ruhengeri: «La casa dà dignità e rispetto, chi ha una casa è più protetto e può finalmente guardare al futuro. Per la mia gente è incredibile che questa grande possibilità non sia stata loro offerta dalle nostre autorità, sentite spesso come distanti e indifferenti, ma da fratelli lontani che – cito testualmente un mio parrocchiano – “si sono impegnati solo guardando le foto di come viviamo”».
info
il progetto in breve
Oggetto: Contributo costruzione di 216 casette.
Periodo: 2006-2007
Materiale: 15 fogli di lamiera per il tetto, due finestre e una porta per ogni casetta.
Costo totale: euro 8.000
Interventi precedenti:
2002 contributo cooperativa agricola euro 3.000
2004 finanziamento pozzo d’acqua euro 12.000