Va’ dove non c’è strada
Sopra al tavolo una carta geografica e una bussola. E poi uno smarthpone di ultima generazione con gps integrato e mappe dall’Himalaya alla Terra del Fuoco, e un orologio con altimetro, profondimetro e altre funzioni. Tutti oggetti indispensabili, addirittura irrinunciabili per un viaggio avventuroso in solitaria. O almeno così crediamo noi. Perché se chiediamo a Franco Michieli quali siano gli oggetti che non devono mai mancare nello zaino di un esploratore, in realtà ci sentiamo rispondere: «Non serve nulla. Bastano solo un buon paio di scarponi da montagna, o comunque calzature e abbigliamento adatti. E se avete, come me, una passione per le immagini, una macchina fotografica». La risposta, così strana in tempi di connessione continua e di compulsione da oggetti che paiono tutti sempre e comunque indispensabili per la sopravvivenza, si comprende a fondo solo conoscendo colui che ce l’ha data: Franco Michieli, tra i massimi esperti nel campo dei lunghi percorsi a piedi in autonomia. Vale a dire senza mappe, senza tecnologie per l’orientamento, solo con buone gambe e voglia di fermarsi ad ascoltare il battito della natura. Esploratore, geografo, scrittore e, in fondo, visionario. Michieli vive a Bienno, in val Camonica, sulle Alpi Bresciane. Ma non è nato qui. In questo piccolo paese, incastonato tra le montagne e percorso dal torrente Grigna, ci è arrivato dalla città, Milano. Tra magli e mulini di un borgo medievale tra i più belli d’Italia, par davvero che il tempo si sia fermato. Dopo traversate alpinistiche integrali di catene montuose e terre selvagge compiute da giovanissimo − come le Alpi (80 giorni), i Pirenei (39 giorni), la Norvegia (150 giorni), l’Islanda (33 giorni) −, Franco sceglie una strada più difficile alla scoperta dei significati profondi dell’esplorazione. «Ho iniziato a percorrere vasti territori senza mappe e senza strumenti nel 1998 – spiega –. Il cammino resta una grande avventura, con molte probabilità di perdersi. Stimola a intuire ciò che non è palese, a immaginare l’invisibile e a provare vie senza sapere se portano dove vogliamo. Procedendo per tentativi diventiamo esploratori. Perdersi e imboccare una strada imprevista è un buon modo per rinnovarsi. Tutto cambia se si impara a leggere la natura. Si recuperano la capacità di orientamento, ma anche la dimensione spirituale». Smarrire la strada obbliga a trovare da soli altre vie da percorrere e nuovi strumenti di orientamento. In questa ricerca la natura non ci lascia soli. «Se non potremo guardare la Terra dall’alto, impareremo che dal suolo è possibile vedere bene il cielo. Lassù il corso del sole diviene la bussola naturale con cui riorientare la nostra mappa mentale comprendente la geometria del territorio e, di conseguenza, la nostra rotta, nei momenti incerti». Il nature writer americano Barry Lopez nel suo capolavoro Sogni artici scrive: «Il territorio è come la poesia: è inspiegabilmente coerente, trascende il suo significato e ha il potere di elevare la vita umana». Con un po’ di esperienza, prosegue l’esploratore, è facile riconoscere il disegno caratteristico di un luogo e tenerlo a mente per orientarsi. «Andare nella natura senza mappa e dover attendere che un segno ci orienti ridesta la sensibilità per quelle parti dell’esistenza che la ragione non raggiunge. Allora, usando noi stessi come strumenti, dimensioni dimenticate forse possono tornarci familiari e preziose». Ma affrontare il rischio di perdersi, non porta a fare i conti con la paura? «Ricordo un episodio. Ero in Islanda, in mezzo a neve e ghiacci, un paesaggio tutto uguale, senza un rumore se non quello degli sci, per chilometri e chilometri che sembravano senza confini, senza perimetri. In quel caso a venirmi in aiuto è stata la lunga esperienza che mi ha insegnato, col tempo, a leggere il territorio, la neve, le foreste e il cielo in modo da trarne indicazioni valide per dirigere il cammino». Meglio cominciare, allora, dalla vita di tutti i giorni. Imparare a perdersi anche in ambienti domestici può essere fonte di infinite scoperte. «In Val Camonica ho una serie di luoghi che mi piace percorrere a turno, variabili con le stagioni – racconta ancora Michieli –: certi sono perfetti d’inverno e non d’estate o viceversa. Ci sono percorsi che diventano eccezionali in particolari condizioni: ormai li conosco, so quando andare a cercarli. Spesso ne scopro di nuovi. Di solito vado in giornate non festive, quando non incontro nessuno o quasi, in compagnia del mio cane. È questo il “rifugio” a portata di mano a cui sono più affezionato».
Chiunque può cominciare a esercitarsi, consiglia Michieli, anche un paio di giorni al mese nei pressi di casa. «Vivere ore, ma anche minuti, di dubbi, eppure andare avanti, è un’esperienza ponte che ci mette nei panni degli esseri viventi di ogni tempo e luogo. Se la leggiamo in positivo, aiuta a sentirci più vicini all’infinità di vite che per i più svariati motivi si trovano disperse. La bellezza di un luogo sta nell’infinità di storie che, là dentro, potrebbero avvenire e coinvolgerci. In fondo, l’evoluzione della vita si fonda sulle deviazioni: la natura stessa usa l’errore per generare la meravigliosa varietà dei viventi e la biodiversità.
Oggi la vocazione di perdersi invita a superare quel tenersi ai margini per sentirsi al sicuro. Le scoperte a cui ci portano l’esperienza, la fatica fisica, il contatto con i piccoli fatti della vita, l’incertezza su dove porti un sentiero, sono forse più preziose del sentimento sublime elaborato al chiuso del pensiero. L’immersione nel corso della vita ci porta a sentirci più piccoli, anche nell’animo, e non più grandi. E forse questa forma di umiltà a cui inducono i cammini non pianificati, in cui avvengono tante cose che non dipendono dall’uomo, rivela qualcosa di più autentico sul sacro». Perché, alla fin fine, il segreto per affrontare la paura di perdersi, sta nell’affidarsi, come piccoli, a un universo che ha ancora tanto da raccontarci.