Vivere nella provincia di Reggio Calabria. Al caffè con la ‘ndrangheta
Si fa presto a dire «ribellatevi alla mafia» quando la mafia è il vicino della porta accanto, il conoscente al caffè, il compagno di scuola, il tuo macellaio. In una realtà ad alta densità mafiosa non è facile distinguere la sfera d'influenza della legalità dal cono d'ombra della criminalità organizzata. Si crea una zona di confine, sospesa tra le regole scritte dello stato e le regole non scritte della mafia. Come si vive, che cosa si spera in una realtà così?
Rocce a picco su un mare immenso e limpido, l'imponenza dell'agave e i colori della buganvillea, le coste frastagliate, i paesi arroccati, le splendide insenature. La Calabria ti saluta così ed è bella davvero. A3, uscita Gioia Tauro. Nell'entroterra della Piana il paesaggio cambia. Dominano gli ulivi secolari, nodosi, imponenti. Le strade si fanno sempre più strette, irregolari, semideserte, gli ulivi più fitti, incombenti, minacciosi. Si incrociano i paesini. Le strade e le case trascurate hanno la patina della decadenza, riportano al passato. Il tempo diventa lento, l'atmosfera immobile. Il Nord è lontano, nel bene dei suoi migliori servizi, nel male della sua frenesia.
L'appuntamento è a Oppido Mamertina, un paesino di seimila anime, ai piedi dell'Aspromonte. Anna, 26 anni, è del posto, gli altri tre, Sara, Marco e Giuseppe vengono da Cittannova, Rosarno e Gioia Tauro. Durante il tragitto, Anna indica un luogo: «Lì hanno ucciso una bambina di otto anni e suo nonno. Passavano per caso. Non c'entravano nulla». La piazza dell'incontro è quella ripresa più volte dai telegiornali: un teatro insospettabile di orrendi delitti. Ci incontriamo per parlare di 'ndrangheta.
Avete paura? «Sì - risponde Marco - , anche se generalmente loro sanno chi devono uccidere e cercano di escludere gli altri. Ci sono stati casi in cui hanno mandato fuori dal locale la gente e poi hanno sparato. Stiamo comunque attenti. Conosciamo alcuni segnali. C'è gente che nei bar non sta mai di spalle e si guarda sempre intorno. Altri camminano solo tra due che gli fanno da scudi. Alcuni locali li evitiamo perché sono troppo vicini alle strade di fuga, dove gli attentati sarebbero facilitati».
In genere si sa chi sono? «Li conosciamo - conferma Anna - . I paesi sono piccoli, frequentiamo gli stessi luoghi. Quando accade un delitto possiamo immaginare i mandanti o li scopriamo quando la parte avversa compie la vendetta».
Perché allora non denunciare? «Anche se avessimo le prove - afferma Marco - , nessuno è tanto eroe da rompere il muro di silenzio. C'è paura, ma c'è anche diffidenza nei confronti delle istituzioni. Lo stato è davvero in grado di proteggerci? E se trovo il coraggio per me, ho il diritto di mettere a repentaglio i miei? Anche le forze dell'ordine vivono qui e sanno. Certo, ci vuole la denuncia per agire, ma quante volte un latitante catturato è uscito per scadenza dei termini?». Il clima di paura condiziona anche i più piccoli aspetti della quotidianità . «Mia madre non mi manda alle feste o ai veglioni di fine anno perché teme che succeda qualcosa - dice Sara, la più piccola del gruppo - . Tra i conoscenti o i compagni di classe alcuni fanno parte delle famiglie...». Ma le conseguenze possono anche essere più pesanti: «Mio zio - racconta Giuseppe - voleva vendere una terra, aveva uno che gliela avrebbe pagata bene. Ma uno di loro la voleva e per giunta al prezzo che diceva lui». In certi casi si verifica che l'assegno pagato, venga poi preteso dall'acquirente fuori dalla porta del notaio.
Non è garantito neppure il diritto alla libera circolazione: «Un giorno hanno sbarrato la strada a un mio conoscente, amante della caccia - continua Giuseppe - . Con fare minaccioso gli è stato detto che lì non c'era quello che cercava». Probabilmente nel luogo si nascondeva un latitante.
Com'è il boss? «Gli anziani sono gentili - afferma Anna - . Ti salutano sempre, hanno un atteggiamento rispettoso, soprattutto con le donne. I più giovani sono aggressivi, prepotenti, violenti, avidi. Nessuna differenza con i comuni criminali. Hanno perso qualsiasi codice».
Ricevere un favore da un boss non significa necessariamente essere costretti a dare qualcosa in cambio. «Il favore è un segno di potere - spiega Marco - . Lui ti trova un lavoro perché può. Lui ti risolve una lite perché può. Il fatto che tu ti rivolgi a lui è un riconoscimento di questo potere. Molto spesso ciò basta». S'intromette Sara: «Un mio parente si è laureato in Economia e commercio da alcuni anni, ma non trova lavoro. Quando il capobastone lo incontra s'informa sempre: 'Allora, dotto' , ha trovato lavoro? Già gliel'ho detto: basta che me lo dica'». Una tentazione non da poco in un territorio come quello della Piana in cui ci sono 25 mila disoccupati.
Tre dei ragazzi sono laureati, ma non sembrano aver molte speranze per il futuro: «Io odio e amo il mio paese - dice Marco - . Lo odio perché è chiuso, ristretto, immobile, senza prospettive. Lo amo perché ci sono nato, perché la mia ragazza è qui, perché qui vivono i familiari e gli amici. Vivo lacerato, a volte sono molto inquieto perché vorrei andarmene al Nord. Lì c'è lavoro, una vita migliore. Poi desisto perché mi sento un vigliacco. Che succederà se ce ne andiamo tutti? Continuamente oscillo tra un sentimento e l'altro».
Avete mai pensato a un lavoro in proprio? Ridono. «Ieri la 'ndrangheta voleva solo il pizzo - afferma Anna - , oggi vuole avere la maggioranza della società . Tu ci staresti?». Interviene Giuseppe: «Io, invece, ho una piccola attività artigianale. L'ho avviata con fatica, solo ultimamente ho fatto il mio giro di clienti. Non metto a posto neppure l'insegna del negozio per paura che quelli pensino che ho fatto i soldi e pretendano la loro parte. Già qualcuno si aggira. Mi mangerebbero tutto il guadagno. Piuttosto chiudo e me ne vado al Nord».
Siete coscienti, dunque, che la 'ndrangheta sia la principale causa del sottosviluppo e della mancanza di lavoro? «Certo - afferma Anna - , ma ci sentiamo con le mani legate. Ti faccio un esempio. A casa mia parliamo spesso di ndrangheta; quello che si scalda di più è papà che non trovando il bandolo della matassa conclude con rabbia: 'Dovrebbero metterli tutti al muro'. Un giorno, però, in barba a ciò che pensa, si è fermato a salutare con rispetto uno di loro appena uscito di galera. Gli ho sgranato due occhi, come per dirgli 'proprio tu!'. Lui ha abbassato lo sguardo con vergogna e ho capito il suo avvilimento. Anche lui, come tutti, era vittima del doppio codice, del contrasto che ci portiamo dentro tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere».
La Calabria non è solo omertà e 'ndrangheta. Il porto di Gioia Tauro è diventato il più grande porto del Mediterraneo senza dare una lira ai boss. Nuovi sindaci hanno dichiarato guerra ai clan. Pagando di persona. Ecco perchè secondo loro la mafia si può vincere.
e imponenti gru del porto di Gioia Tauro si stagliano all'orizzonte come un miraggio. Un'oasi di metallo, operosa e irreale, circondata da una distesa di sabbia e sterpaglia, vasta 550 ettari. Lo strano deserto separa due mondi: da un lato, nel grande ventre del porto, il tempo è scandito dall'andirivieni incessante dei cargo; dall'altro, la città , Gioia Tauro, sembra far parte di un altro fuso orario: lenta, chiusa, immobile nel suo bozzolo di decadenza. Ha di fronte il più grande porto del Mediterraneo, ma come una matrigna, non sa se disconoscerlo o accoglierlo come un figlio.
Il porto dei miracoli
Diventare o meno un polo industriale e portuale: è questa la sfida su cui poggia oggi il futuro di Gioia Tauro. Un futuro ritenuto utopia solo fino a qualche anno fa. Il porto, infatti, nacque male. Il governo di Emilio Colombo, sotto la pressione dei moti per Reggio Calabria capoluogo di regione (1970), decise di rispondere al malcontento popolare con un pacchetto di proposte: Catanzaro sarebbe diventato capoluogo di regione, in compenso Cosenza e Reggio Calabria sarebbero divenute rispettivamente la sede universitaria e il polo industriale della Calabria.
Il pacchetto si rivelò presto una paccottiglia: nel 1975 a Gioia Tauro vennero rasi al suolo uliveti secolari per costruire il 5° centro siderurgico, quando già la siderurgia in Italia dava segni di forte crisi; ma ciò che fu più grave è che i lavori per il centro siderurgico diedero alla 'ndrangheta la possibilità di diventare una ricca e potente mafia imprenditrice.
Il centro siderurgico nacque morto. Per la gente della Piana di Gioia Tauro (una trentina di paesini in tutto), assetata di lavoro, significò una delusione cocente. Iniziarono gli scioperi, le manifestazioni, si creò un fronte compatto che chiedeva a gran voce un riscatto della zona. Solo nel 1994, dopo 25 anni di lotta, si aprì uno spiraglio: a Roma si firmò un accordo di programma con il quale il governo s impegnava a far insediare nel porto di Gioia Tauro un'attività di transhipment, cioè di smistamento di container verso le più diverse destinazioni. La «Medcenter», emanazione di «Contship», un'impresa di transhipment genovese, accettò la sfida. La prima nave attraccò il 15 settembre del 1995. Fu l'esordio di un miracolo: da 50 scali settimanali con 17 mila teu (unità di misura del trasporto container) del 1995, si passò ai 1331 con 572 mila teu del 1996 e ai 2729 scali e 1 milione e 450 mila teu a fine 1997. Oggi è in piena espansione. Dal successo del porto di Gioia Tauro hanno tratto vantaggio tutti i maggiori porti del Mediterraneo con un incremento complessivo dei traffici pari al 44 per cento.
Qual è il segreto di tanto successo? «C'è stata una concomitanza di fattori - risponde il sindaco diessino di Gioia Tauro, Aldo Alessio - . Innanzitutto, un imprenditore privato ha avuto l'intuizione di capire che cosa poteva diventare questo porto e il coraggio di investirvi centinaia di miliardi. Il secondo fattore sono stati i finanziamenti statali ed europei per realizzare le infrastrutture. Il terzo è stato il sindacato unitario che ha realizzato per primo in Italia un accordo sulla flessibilità salariale andando incontro a forti opposizioni, anche interne. Il quarto fattore è stato il sacrificio di molti giovani calabresi che pur di far partire l'attività hanno accettato una selezione dura, un salario più basso, e un'assoluta flessibilità di orario, turni di notte, di sabato, di domenica...».
Un successo che ha anche ragioni ambientali: il porto è in una posizione strategica, ha fondali eccezionali che possono accogliere le grandi navi, e soprattutto ha un immenso retroterra che si presta a interessanti sviluppi. La sfida comincia proprio da qui: «'Medcenter' da sola non basta - afferma Alessio - , la vera chiave di volta sarà lo sviluppo dell'area industriale alle spalle del porto. Oggi abbiamo di fronte a casa nostra un importante strumento che collega Gioia Tauro e la Calabria al mondo intero. Ora il problema è come impariamo noi del territorio, a utilizzare questa risorsa, creando un'industria nostra e attirando investimenti».
Dopo gli entusiasmi della prima ora, riaffiorano i problemi. Al porto lavorano circa 631 giovani, altrettanti sono occupati nell'indotto, ma siamo in una zona in cui la disoccupazione raggiunge vette spaventose: il 27,3 per cento a Gioia Tauro, il 42,9 per cento a Rosarno, un comune limitrofo; tutta la Piana registra 25 mila disoccupati e l'intera provincia di Reggio Calabria circa 180 mila.
Lo sviluppo della zona industriale non è solo in mano alle forze locali. «Lo Stato deve fare la sua parte - interviene Sbarra, segretario provinciale della Cisl - . Dopo tre anni di attività del porto, nei 550 ettari di terreno retrostanti non c'è traccia di insediamenti industriali, nonostante 100 imprese, locali e da tutta Italia, abbiano chiesto l'area per fare investimenti. C'era un'ipotesi di riconoscere una zona franca, ma ancora non se ne sa nulla. C'è bisogno di colmare i grossi deficit infrastrutturali: il porto non è ancora completato e i collegamenti con l'autostrada e le ferrovie sono insufficienti. C'è soprattutto la necessità di elevare le misure di sicurezza perché, è inutile nasconderlo, siamo in un'area fortemente esposta al rischio di criminalità organizzata».
Il maggior controllo del territorio da parte dello stato non basta, il sindaco Alessio ne è sicuro: «Quando iniziarono i lavori del porto, le grandi imprese del Nord, ricche e opulente, prima ancora di aprire i cantieri edili, non si rivolsero allo stato, andarono a trattare direttamente con le cosche. Si crearono addirittura rapporti di affari e di fiducia. Io non do per scontato che l'imprenditore che viene a investire qui, abbia già fatto una scelta netta di campo».
Ma al Sud lo stato è spesso latitante; chi tutela l'imprenditore onesto? Alessio risponde con calma, è abituato all'obiezione: «L'imprenditore che oggi viene a investire a Gioia Tauro sa, perché questi sono i fatti, che al suo fianco troverà un sindaco che insieme alla prefettura, alla questura, alle forze dell'ordine, saprà difenderlo. Lo dico perché è già avvenuto. Tempo fa la 'Medcenter' è stata presa di mira dalle cosche che volevano lucrare sulla sua attività . L'imprenditore ha denunciato e ora gli estortori sono in carcere. 'Medcenter' ha dimostrato che si può investire con profitto in un'area ad alto tasso di criminalità mafiosa senza dare una sola lira ai clan».
Il sindaco parla con determinazione e con l'orgoglio di chi pone se stesso come garante. Si percepisce una ventata d'aria nuova nella Piana sempre dipinta dai mass media come omertosa e 'ndranghetista. Nei comuni ci sono ora sindaci eletti direttamente dal popolo che hanno avuto il coraggio di rompere con le collusioni mafiose. Si incontrano per concertare iniziative e stanno pagando di persona, con minacce e attentati, questa loro voglia di cambiare. «Noi sindaci - continua Alessio - , sappiamo ormai con chiarezza che non c'è sviluppo per la nostra gente senza legalità . Io stesso sto pagando a caro prezzo quanto ho promesso agli elettori. Andrò avanti fino in fondo... dovesse pure costarmi la vita».
La città e il suo sindaco
Reggio Calabria 1998. Qualcosa è cambiato, si avverte subito. Non più spazzature ai crocicchi, non più macchine parcheggiate in seconda fila, non più verde pubblico abbandonato. C'è una vivacità che non c'era solo qualche anno fa, quando la mafia aveva in pugno la città e ne condizionava la vita. Non c'era più orgoglio né voglia di rinascita. La deriva delle cose era la deriva della dignità .
Oggi la via Marina, la via del passeggio, dei bar all aperto, degli alberi pregiati, delle ville in stile liberty, la via che D'Annunzio chiamava «il più bel chilometro d'Italia», ha ripreso a pulsare. Per la città è solo un lifting passeggero o qualcosa sta cambiando?
Italo Falcomatà , il sindaco di Reggio Calabria, ci accoglie a casa sua. Ha il viso segnato da una notte insonne. Il consiglio comunale è iniziato alle 16.30 ed è finito alle 5 del mattino. Tutto per approvare tre delibere che avrebbero dovuto impegnare al massimo 50 minuti. Nonostante i problemi, politici e non, qualcosa si sta muovendo a Reggio Calabria.
Msa. Sindaco, quando è entrato nell'amministrazione nel 1994, la città era in ginocchio. Usciva da una guerra di mafia lunga e sanguinosa. Quali le prime misure per riportare il comune alla legalità ?
Falcomatà . La misura che ebbe più successo fu quella di applicare il sistema dell'asta pubblica alle gare d'appalto. Prima il comune si avvaleva della trattativa privata: in vista di un lavoro, invitava un certo numero di imprese, che erano già d'accordo su chi avrebbe avuto l'appalto. I ribassi non superavano il 5 per cento. Con il meccanismo dell'asta, le imprese dovevano gareggiare veramente cercando di indovinare il prezzo più conveniente. Cominciarono i ribassi al 33 per cento, al 35, al 38 e, per i lavori più semplici, al 40 per cento. Un esempio. Prima l'interramento dei rifiuti costava alla città un milardo e trecento milioni, dopo l'asta pubblica, mezzo miliardo. Si ebbero due risultati: il denaro dell'amministrazione cominciò a valere il doppio; il sistema dei ribassi non permise grandi dividendi e tagliò i viveri alle cosche e a quei politici che si accampavano ai margini del bilancio comunale e influenzavano per i propri interessi la vita amministrativa.
Come avete migliorato le prestazioni della pubblica amministrazione e ridato orgoglio alla città ?
Innanzitutto abbiamo assunto personale. Quando diventai sindaco in comune c'erano 649 posti vuoti. I servizi erano inevitabilmente scadenti. Mancavano bidelli nelle scuole, addetti alla nettezza urbana... Non le dico come erano ridotti i nostri giardini pubblici, la via Marina... Abbiamo chiesto l'aiuto della cittadinanza con un manifesto che titolava «Il verde è al verde». La città ha risposto: i ragazzi di ingegneria sono scesi in via Marina per recuperare le aiuole. Pian piano i commercianti adottarono parti del verde cittadino, le arredarono con impianti idrici e sistemi luminosi. La via Marina ritornò ad essere frequentata dopo tanti anni.
Vivacizzammo anche le attività culturali, il comune gestì direttamente la stagione teatrale, Reggio Calabria incominciò a vivere anche di notte; uscì di casa elegante e si aggregò intorno all'amministrazione comunale, la stessa amministrazione che solo un anno prima era considerata il trattino d'unione tra la mafia e gli affari. Una vera rinascita dello spirito civico.
Perché nella sua città la mafia ha ancora del fascino?
Non ha più il fascino di un tempo. Per capire perché essa si annidi e venga accettata, bisogna innanzitutto considerarla una contraddizione in seno al popolo. Ci sono quartieri in cui tra una cosca e l altra, tra un detenuto e l'altro, tra una vittima e l'altra ci sono oltre 100, 150 famiglie che per vari motivi sono legate alla 'ndrangheta. Si è legati per tradizione, perché decenni prima qualcuno della famiglia era affiliato, si è legati perché uno è detenuto e loro lo mantengono, perché un ragazzo è orfano e nessuno si cura di lui tranne la cosca. La 'ndrangheta genera i propri miti, le proprie leadership, i propri status symbol con i quali s'impone all'attenzione popolare. C'è chi in pochi anni ha fatto un'evidente scalata economica e sociale, e viene apprezzato perché è uno che ci sa fare. Lentamente passa l'idea che il sistema malavitoso sia un lavoro che conta. La gente ingenua ne viene condizionata. Nasce il rispetto.
Sta cambiando qualcosa?
La novità è che lo stato dimostra quotidianamente di essere più potente di loro. La lista dei latitanti si fa ogni giorno più corta. È un segno che sono in difficoltà , che c'è più controllo. Lo stato sequestra i loro beni e toglie i simboli del loro prestigio sociale. Quando in un quartiere, quel palazzo, quella villa della tal famiglia, prima ritenuti inaccessibili, diventano addirittura la sede di un gruppo teatrale o di un'associazione per handicappati, anche il modo di percepire la mafia cambia. Se lo stato non si adagia sui successi ottenuti, forse è arrivata la resa dei conti.
Anche lei, come i sindaci del Nord, sente il bisogno di una maggior autonomia dal centro?
Un sindaco del Nord ha risolto i problemi più elementari. Sente quindi il bisogno di essere più libero dalle pastoie centraliste. Qui l'assenza di associazioni, di industrie, di servizi, di dinamismo rende il problema del lavoro drammatico. Ecco che un impiego statale, anche di natura assistenziale e pagato male, è per un disoccupato una sistemazione, un'occasione per non cadere nel baratro. Un sindaco del Sud deve fare da tramite tra il sogno di una società svincolata dal sistema statalista e la realtà in cui si trova a operare.
Molti al Nord pensano che nonostante tutti i gli aiuti economici al Sud e gli esempi di dinamicità di altre regioni, il Meridione non è riuscito a decollare. Non sarà mica solo colpa della mafia?
È un insieme di fattori. Una delle cause principali è che in tanti anni i governi hanno portato avanti solo espedienti: la Cassa del Mezzogiorno, le leggi speciali. Si usò l'impiego statale come valvola di assunzione per placare gli animi. Nessuno investì in infrastrutture e sviluppo.
Quanto le è costato e le costa essere sindaco di prima linea?
Molto. Tanto che volevo dimettermi. So come la pensano questi signori: non sono dei goliardi, fanno di tutto per sfiancarti. Sanno gestire la tua paura che non è solo per te, ma per tutti quelli che ti circondano. Sono mesi che non ho più una vita mia. Se mi fermo a parlare con una persona o vado a pranzo o al bar, ho la scorta... non ricevo telefonate perché il mio telefono è protetto, se arriva qualche lettera passa prima al vaglio...
Ero abituato a chiudere la porta del mio ufficio e a farmi una passeggiata in via Marina. Adoravo la motocicletta, tanto che ci ho fatto il viaggio di nozze; la domenica uscivo in bicicletta con i miei figli. Oggi con la scorta come potrei farlo? Sarei ridicolo e metterei tutti in agitazione. Sappiamo che «quella cosa» è sempre in agguato... Nonostante tutto sento che il sistema di prepotenza si sta sgretolando. l
Cittadini di serie B
«Ci sentiamo cittadini di serie B - afferma uno dei giovani intervistati, Marco, triste, orgoglioso, consapevole - perché siamo cani di due padroni: l'uno, lo stato, ci chiede tasse, ci promette sicurezza, lavoro, migliori servizi, ma sono solo promesse; l'altro, la 'ndrangheta, ci toglie le prospettive e la possibilità di esercitare i diritti fondamentali: la proprietà , la libera circolazione nel territorio, l'iniziativa economica, l'incolumità fisica. Ciò che ci dà sono i favori che il potente elargisce al suddito».
L'opinione di Angelica Rago Gallizzi
La Calabria sta cambiando davvero? È difficile distinguere le luci dalle ombre. Lo dimostrano le parole di Angelica Rago Gallizzi che appoggia e vive giorno per giorno la lotta personale contro la mafia che la cugina Teresa Cordopatri dei Capece sta portando avanti da trent'anni. Anni di dolore (la mafia uccise il fratello di Teresa), di lotta (la mafia usurpò le terre dei Cordopatri), di denunce inascoltate (l'assenza dello stato è per loro la più grande amarezza).
Msa. Signora Rago, Gioia Tauro potrebbe davvero diventare una svolta per la Calabria?
Rago Gallizzi. Il porto è sicuramente un punto di riferimento importante. Ma io contesto il modo in cui è nato. In Calabria abbiamo fior di intelligenze che qui si perdono mentre al Nord danno frutto, come mai? Come mai solo un imprenditore del Nord ha trovato le porte aperte per insediarsi a Gioia Tauro? Non vorrei si trattasse ancora una volta di sfruttamento del Sud da parte del Nord. Agli occhi del resto d'Italia sembriamo i poveracci, i nullafacenti, gli incapaci; ma vi siete mai domandati se qualcuno ci abbia mai dato davvero una possibilità ? I corsi di formazione regionali si moltiplicano. I ragazzi li seguono, perdono mesi, ma dov'è il lavoro? Perché dare a questi giovani l'ennesima disillusione? Qui c'è il nulla assoluto! Chi ha mai investito in sviluppo? Il malcontento dei giovani è così profondo, così viscerale che non mi stupirei se scoppiasse un altro Sessantotto.
Di chi è la colpa?
La politica ha grandi responsabilità . Ha straziato la nostra terra, ha distrutto il nostro futuro. Parliamoci chiaro: qui si muore di fame; perciò la mafia si è sostituita all'imprenditoria e di fatto ha dato lavoro, ha sfamato bocche. Ciò non significa che plaudo alla mafia. Significa che se la mafia ha potuto fare questo è perché la politica glielo ha permesso.
Quale legge hanno fatto per tutelare l'unico bene della Calabria che è l'agricoltura? Nessuna. Oggi il lavoro di un bracciante agricolo per gli uliveti costa 70 mila lire al giorno, ma ciò che lui produce in una giornata vale sul mercato solo 17-18 mila lire. Per altri prodotti si arriva addirittura alle 3-4 mila lire. Per forza che poi un disgraziato che ha famiglia si accontenta di 20 mila lire al giorno in nero.
Cosa ne pensa dei nuovi sindaci?
Alcune cose le hanno fatte, ma non basta fare il belletto a una città . Ripulire le piazze, controllare le aste pubbliche, promuovere il territorio non sono imprese da eroi, ma ciò che normalmente fa un sindaco. Credo fermamente che ancora qui in Calabria non ci sia nessuna forza politica, né a destra, né a sinistra, capace di fare davvero l'interesse della gente.