«Vorrei che nessuno dimenticasse»
Ricordare Auschwitz. Ricordare quei momenti in cui l’esercito russo è entrato nel grande campo circondato da torrette e filo spinato. Quando Ivan Martynushkin, insieme con quattro compagni, si è trovato davanti a quell’enorme recinto, aveva 21 anni ed era il comandante di una compagnia di mitraglieri. Ora di anni ne ha 91 ed è un «veterano», un anziano signore, con lo sguardo lucido e l’espressione serena, uno dei combattenti che hanno costruito la storia della Russia di oggi. Vive a Mosca con la nipote e la bisnipote in un piccolo appartamento, in un palazzo solido dell’età staliniana. Due stanze, grandi finestre, mobili chiari e razionali, una cucina in cui si può mangiare in quattro. Nel soggiorno, con un comodo divano, libri e fotografie, c’è anche un grande ritratto di Ivan con tutte le sue medaglie e decorazioni. Un’altra copia di quel quadro – mi racconta – è al Museo del parco della Vittoria, lì dove sono raccolte tutte le memorie di quella che i russi chiamano «la grande guerra patriottica».
Martynushkin è stato uno dei primi a entrare nel campo di sterminio e uno degli ultimi che sono ancora in vita. Trovarlo non è stato facile. Avevo letto che uno dei primi soldati entrati ad Auschwitz era presente in una delle manifestazioni per celebrare il settantesimo anniversario della liberazione del campo, il 27 gennaio, e mi ero rivolta alle associazioni dei veterani di Mosca per averne notizie, indirizzo e numero di telefono. Mi avevano risposto con un «Net». Non erano in grado di darmi alcuna indicazione, non conoscevano nessuno con quel nome. Forse non era vero, era una risposta burocratica. Mi sono ricordata che la manifestazione alla quale Ivan aveva partecipato era stata organizzata dall’European jewish congress, l’organizzazione che rappresenta gli ebrei europei, tiene vivo il ricordo della Shoah e si dedica alla lotta contro l’antisemitismo. È stato un attimo, un rapido scambio di mail e avevo tutto: indirizzo, numeri di telefono e anche, senza che la chiedessi, l’informazione fondamentale. Ivan Martynushkin era in ottime condizioni fisiche e psichiche e sarebbe stato sicuramente disponibile a parlare. Gli ho telefonato e lui ha confermato la sua disponibilità «Ma fate presto – ha ironizzato –; a 91 anni non posso garantire a lungo per la mia salute».
Ci siamo incontrati a Mosca in un giorno in cui luglio sembrava novembre. Una pioggerellina sottile si alternava a fugaci schiarite, le temperature erano basse per una città che, in genere, conosce estati torride. Il soggiorno di Ivan con il suo tavolo bianco sul quale avevo piazzato registratori (due, non si può mai sapere) e quaderni era accogliente e silenzioso, favorevole ai ricordi che mi accingevo a raccogliere. Ivan sedeva composto, aveva lo sguardo fermo e sereno. Prima di incontrarmi – a sua detta – aveva messo ordine nei pensieri, perché voleva essere preciso. Così ha cominciato.
«Era l’alba del 27 gennaio 1945. Noi dell’Armata rossa avevamo percorso migliaia di chilometri per inseguire i tedeschi ed eravamo arrivati in Polonia da quindici giorni. Avevamo liberato Cracovia e, nei giorni precedenti, eravamo riusciti a respingere il nemico fuori dal villaggio di Oswiecim. C’erano state battaglie molto dure perché il nemico, anche se in ritirata, continuava a resistere e combattere. Mentre lo inseguivamo, dopo l’ennesimo scontro, ci siamo trovati di fronte a un grande campo e ci siamo acquattati con le armi pronte accanto a un filo spinato che lo circondava. Ricordo bene l’incertezza di quei momenti. “Entriamo?” ha chiesto uno di noi, non ricordo chi. “No, aspettiamo” ha risposto un altro. Dal comando non c’era ancora alcun ordine».
Msa. Così siete rimasti lì ad attendere? Martynushkin. Sì, abbiamo preferito. Poco prima era arrivata una «gragnuola» di colpi improvvisi e inaspettati; non era chiaro da dove venissero e avevamo temuto che qualcuno di noi fosse stato ferito. L’ultima volta che avevamo parlato col comando ci avevano detto di essere pronti a tutto, «anche al peggio». Per questo, per prudenza, c’eravamo fermati a osservare.
Che cosa vedevate esattamente? Erano le cinque del mattino del 27 gennaio, non doveva essere molto chiaro. Vedevamo un reticolato robusto e imponente – non ne avevamo mai visti così – e noi ci trovavamo nel punto esatto in cui quella rete formava un angolo retto, per poi dividersi e perdersi da entrambe le parti nel grigio della terra e del cielo. Non capivamo dove finisse, abbiamo solo visto che era lunga chilometri.
In effetti si trattava di un rettangolo con due lati di quattro chilometri e gli altri due di dieci. Difficile vederne la fine. Ma al di là del filo spinato si riusciva a vedere qualcosa? All’inizio pareva non esserci alcun segno di vita. Poi, guardando con più attenzione, nella luce incerta dell’alba ho visto delle costruzioni basse, come baracche. Depositi di armi, ho pensato, forse prigioni. Scendeva una neve leggera che rendeva ancora più confusa la visione. Tutto era opaco e silenzioso attorno a noi. Avevamo sopportato ben di peggio di quell’attesa nel gelo, ma cominciavamo a essere impazienti. Chi c’era dietro quel reticolato? Ci chiedevamo più con gli occhi che con le parole. Prigionieri? Probabilmente sì, ma non ci fidavamo. Tante volte i tedeschi ci avevano riservato delle brutte sorprese. Poi abbiamo cominciato a osservare bene le baracche, abbiamo visto che alcune di loro avevano le finestre e, tra l’una e l’altra, qualcuno camminava, delle ombre si muovevano lente e guardavano silenziose verso di noi. Alcune – ci è sembrato – agitavano le mani, facevano dei segni. Erano segni di saluto ed erano rivolti a noi.
Alla fine è arrivato l’ordine di entrare? Voi eravate sempre in collegamento col comando? No, non c’è stato nessun ordine preciso. A un certo punto, non so come, senza neppure dircelo, abbiamo deciso di superare quel filo spinato. Non sapevamo chi fossero quelle ombre, ma loro ci avevano riconosciuto e ci salutavano. Agitavano le mani con lentezza, quasi timidamente. Magari sono prigionieri russi, ho pensato. Ci siamo avvicinati con cautela e li abbiamo finalmente visti con chiarezza. Ecco, questo lo ricordo molto bene. Erano magri, molto magri, degli scheletri che si muovevano, solo gli occhi parevano avere un barlume di vita. Si erano messi addosso di tutto: coperte, vestiti stracciati, vecchi cappotti, qualunque cosa potesse scaldarli un po’. Era una visione orribile, davvero orribile, e loro ne erano consapevoli. Ho capito che volevano darci il benvenuto, che ci avrebbero abbracciato volentieri, ma erano trattenuti dal pudore e dall’imbarazzo. Si vergognavano di loro stessi, di com’erano ridotti. Così solo gli occhi si sono mossi, hanno cercato i nostri. E li hanno incontrati.
A quel punto ha capito dove si trovava, che cosa aveva scoperto? No, non ho capito. Non sapevo che cosa fosse quel luogo, chi fossero quegli uomini. Non erano molti i prigionieri di quel grande campo, lo avevano sgomberato poco prima che noi arrivassimo. Avevo solo la sensazione – questa sì, precisa – che in quei momenti si stava interrompendo qualcosa di tremendo e che stava avvenendo qualcosa di buono. Non ho fatto il giro, era troppo grande. Sapevo che in altre parti di quella recinzione spinata altri soldati stavano arrivando.
Ha provato a entrare in una di quelle baracche? Con i miei compagni ho provato ad avvicinarmi a una baracca per capire chi c’era. Ho visto solo donne. Ma non sono entrato, non ce l’ho fatta, sono stato respinto da un odore terribile. Quelle prigioniere erano gravemente malate, non erano neppure in grado di alzarsi per un saluto. Alcune di loro erano già morte. Abbiamo lasciato la baracca e quel terribile puzzo ci ha inseguito dappertutto, era un puzzo fortissimo di bruciato. Non solo di legna. No, non era solo di legna…
Ha capito che quegli scheletri viventi, quei malati, quei morti erano ebrei? Abbiamo cercato di comprendere chi erano coloro che erano rimasti, da dove venivano, ma non abbiamo capito che erano ebrei. Loro non si presentavano come tali. Declinavano solo la loro nazionalità. Dicevano solo «Io sono polacco», «Io sono ungherese». Non conoscevano la nostra lingua e noi non conoscevamo la loro. Abbiamo detto qualche parola in inglese o in tedesco. Qualcuno ha provato a parlare polacco. A me sembravano soprattutto ungheresi, perché continuavano a ripetere «Hungari, hungari».
Ma l’entità dello sterminio, quello che era avvenuto in quel campo lo avete almeno intuito? Nessuno di noi in quei primi momenti ha capito l’entità reale dello sterminio che si era compiuto dentro quei fili spinati. Del resto, ciascuno di noi ne ha visto appena una parte, perché il nostro compito, il nostro dovere, non era occuparci di quelle ombre, ma stanare i tedeschi, inseguirli. Quegli scheletri coperti di stracci erano apparsi all’improvviso senza che nessuno ci avesse avvertito e li abbiamo lasciati in fretta, perché non potevamo permettere che il nemico si allontanasse. Altri poi sarebbero venuti a occuparsi di loro.
E loro, i prigionieri, avevano capito chi eravate? I prigionieri hanno capito che eravamo russi, che era arrivata l’Armata rossa. Sembra incredibile, ma anche in quell’inferno avevano percepito che per i tedeschi le cose si stavano mettendo male e che avevamo liberato Cracovia. Avevano sentito i rumori della battaglia, i colpi dell’artiglieria. La verità su quel grande campo si è fatta strada nelle nostre teste lentamente. La sera noi soldati che lo avevamo attraversato ci siamo incontrati e abbiamo cominciato a raccontare. C’era chi aveva visto quel che restava dei forni crematori che i tedeschi avevano fatto saltare prima della fuga. Abbiamo scoperto che quel terribile odore veniva dai cadaveri, che erano stati depositati a strati sulla legna per poi dar loro fuoco. Abbiamo capito che in quel campo erano rimasti solo i malati, chi non poteva muoversi. Gli altri erano stati portati via.
L’esistenza di Auschwitz, di un campo in cui si pianificava lo sterminio, era sconosciuta agli alleati… Neppure i nostri generali sapevano. Quando sono arrivati, dopo di noi, anche per loro è stata una terribile scoperta.
Chi oggi visita Auschwitz ne rimane sconvolto. Gli oggetti, le fotografie, le storie lì contenute provocano ancora orrore, paura e rabbia. Lei è entrato quando ancora c’erano i prigionieri: quali erano i suoi sentimenti? Quali erano i suoi pensieri? Non credo si possa rimanere uguali a se stessi dopo aver scoperto Auschwitz. Venivo dalla Russia, avevo attraversato l’Ucraina, le terre che i tedeschi avevano occupato, avevo visto scene terribili, di dolore, di sofferenza. Sofferenze inaudite. In quel campo recintato ne ho viste ancora… Sì. Ha ragione, ho visto l’orrore. Ma noi eravamo soldati e, se il dolore si fosse impadronito dei nostri pensieri, sarebbe stato impossibile andare avanti. Avevamo un compito importante: dovevamo cacciare dalla nostra patria i soldati di Hitler, sconfiggere i nazisti che avevano distrutto i nostri paesi, le nostre case. Quel campo era la prova, un’altra prova, che dovevamo compiere il nostro dovere fino in fondo. La compassione era tanta, ma non ci potevamo fermare, il dolore era grande, ma dovevamo mantenerlo alla superficie del cuore. Abbiamo evitato che penetrasse in profondità.
Quando ha capito? Quando le è stato chiaro fino in fondo l’orrore di Auschwitz? Quando c’è stato il processo di Norimberga. Allora di fronte a quelle immagini, a quelle testimonianze, ho capito che, sia pure per caso, ero passato attraverso l’inferno. Che in quel luogo si era pianificato e consumato lo sterminio di un popolo. E che noi quel giorno di gennaio avevamo avuto un ruolo importante. Da allora ci penso sempre. Sono tornato altre volte ad Auschwitz e ogni volta ricordo quei momenti, quegli scheletri viventi, quel puzzo. Ora mi è chiara l’importanza di quel che è avvenuto. E vorrei che nessuno lo dimenticasse.
(Ha collaborato Eleonora Durante Mangoni).