Walter De Raffaele: lo scudetto per il Santo

A tu per tu con il «coach» della Umana Reyer basket, Walter De Raffaele, che, a pochi giorni dalla vittoria in campionato, è venuto in Basilica a piedi da Venezia per dire il suo grazie a sant’Antonio.
13 Luglio 2019 | di

25 giugno 2019. È la prima giornata caldissima di quella che le previsioni dicono sarà una delle settimane più torride dell’intera estate. Non poteva scegliere giorno «migliore» Walter De Raffaele per rispettare la promessa fatta pochi giorni prima: «Se vinciamo il campionato andrò a piedi a Padova a ringraziare sant’Antonio».

E in effetti, quando la sera del 22 giugno la squadra di basket veneziana Umana Reyer (di cui De Raffaele è primo allenatore dal 2016) si è aggiudicata il secondo scudetto in tre anni (e nel 2017-’18 c’era stata pure la FIBA Europe Cup), uno dei primi pensieri del coach è stato quello di mantenere la parola. Perché il risultato raggiunto è stato davvero straordinario. Merito della squadra, certo, ma merito soprattutto di questo livornese dal carattere un po’ scontroso (dicono, anche se questa non è stata l anostra impressione) eppure «buono quanto un caciucco», come ha scritto qualcuno, che ci ha creduto fino alla fine e spesso contro tutti.

De Raffaele è partito alle 6 e 15 dal paese del veneziano in cui vive, in compagnia del suo vice Gianluca Tucci, del figlio Nicola e di altri due amici. Le campane della Basilica del Santo suonavano le 12 quando il quintetto faceva il suo ingresso nel sagrato del Santuario antoniano. Ad attenderlo c’era un frate, Andrea Vaona, non solo co-autore di questa intervista, ma a sentire lui anche vero deus ex-machina della vittoria della Reyer, perché mentre quest’ultima si giocava il titolo, in gara sette, contro la Dinamo Banco di Sardegna Sassari, lui se ne stava incollato davanti allo schermo della tv in quel di Montepaolo (FC), presso il primo convento in cui sant’Antonio dimorò stabilmente una volta giunto in Italia. E da quel luogo così caro alla devozione antoniana, tifava Reyer con tutto il cuore. Scherzi a parte, frate Andrea, che tifoso lo è davvero, è stato ben felice di fare da guida alla piccola delegazione del mondo cestistico lagunare. In Basilica,

De Raffaele ha voluto recarsi alla tomba di sant’Antonio, poi nella cappella delle Reliquie e, infine, si è concesso per un’intervista.

Msa. Ha riportato lo scudetto a Venezia nel 2016/’17 dopo 74 anni e ora è appena riuscito a vincerne un altro: che cosa ha significato per lei? De Raffaele. Una grandissima soddisfazione, perché in certi momenti ci si sente addosso la responsabilità di rappresentare una città intera e un club storico amato da tante persone. Quest’ultimo scudetto è stato davvero inaspettato. Il primo, quello della stagione 2016/’17, lo definirei lo scudetto dell’innocenza, questo è stato il titolo della consapevolezza. Una grandissima gioia.

Com’è riuscito a realizzare un affiatamento di squadra come quello visto in campo? Diciassette partite in 35 giorni sono uno stress agonistico notevole. Quale elemento «tiene» il gruppo? Il bene comune, nel senso che «tiene» il fatto di avere un obiettivo comune che va oltre la prestazione del singolo. E noi, sia come club che personalmente, abbiamo sempre messo davanti il gruppo rispetto al singolo giocatore. Quando questo concetto passa all’interno di un team, le stagioni diventano sempre positive, indipendentemente dal risultato.

La società sportiva veneziana si spende molto sul territorio per far crescere la voglia di gioco e aggregazione. Come siete percepiti dalle famiglie? E dai giovani? L’Umana Reyer ha questa funzione sociale da molto prima che io arrivassi, nel 2011, come secondo allenatore. Lo dimostrano i numeri importanti del nostro settore giovanile, i cui giocatori provengono da tutta la città metropolitana e anche dalle zone limitrofe. E non solo i giovani: l’Umana Reyer è molto attenta alle persone in genere, e credo sia anche per questo che dalle famiglie viene percepita come portatrice di valori veri, oltre che per la correttezza che pretende dai propri giocatori e da quanti lavorano all’interno della società.

Che cosa direbbe a un giovane per aiutarlo a vivere al meglio l’ambiente sportivo del basket? Di seguire i propri sogni, di divertirsi, di non pensare che diventerà qualcuno. Gli trasmetterei la mia idea di squadra, riassunta nella frase che ho fatto affiggere, in inglese e in italiano, sulla porta dello spogliatoio: «Aiuta i tuoi compagni ad accettare i tuoi limiti e tu accetta i loro, aiutandoli, però, a superarli. In questo modo diventeremo una squadra vincente».

Con questo pellegrinaggio a piedi da Venezia alla Basilica padovana, ha voluto dire grazie a sant’Antonio. Come nasce il suo legame col Santo? È nato alla fine degli anni ’90, quando, giocando a Padova, venivo spesso in Basilica. E poi ho continuato anche dopo il mio arrivo a Venezia. Non posso dire di essere molto praticante, però ho fede e con questo pellegrinaggio ho voluto dire il mio grazie al di là del risultato ottenuto che, in fondo, è un motivo un po’ futile. Io credo che nella vita ci sia sempre un disegno più grande ed è giusto rendersene conto e riconoscerlo. È questo il senso del mio essere qui oggi.

Appeso al collo, accanto al crocifisso, porta un Tau: ha un significato particolare? È un simbolo francescano che io e mia moglie abbiamo preso al santuario della Verna oltre dieci anni fa e che abbiamo sempre portato con noi. Come famiglia ci rechiamo spesso a La Verna e lì c’è un frate, padre Marco, che ci segue da vicino da sempre. Questo legame con il santuario francescano è una cosa che sento davvero molto mia, mia e di mia moglie.

Il basket moderno è gioco rapidissimo: che cosa insegna alla nostra vita già così frenetica? Niente di buono (ride). Battute a parte, qualcosa di buono lo insegna. Fa capire, per esempio, che a volte si devono prendere decisioni in poco tempo e che queste possono essere sbagliate e quindi favorisce l’accettazione dell’errore. Poi però insegna anche a ragionare sui propri errori, per provare a non commetterli più la volta successiva, quando si dovrà decidere con altrettanta fretta.

I molti stranieri e le stelle della prima squadra testimoniano un mondo ormai globalizzato. Che cosa apportano, proprio in quanto presenza straniera? Penso portino un’apertura mentale importante, perché ti obbligano a confrontarti con realtà e modi di vivere diversi, a cercare di capire il perché di alcuni comportamenti.

Le finaliste del campionato appena conclusosi, Sassari e Venezia, sono realtà periferiche rispetto ai grandi centri economici italiani. Che cosa raccontano al nostro Paese? Sassari e Venezia raccontano che c’è un’occasione per tutti. Che se lavori bene, con serietà e organizzazione, le possibilità ti si aprono, anche se magari alla vigilia di un campionato possono esserci altri club con maggiori potenzialità sulla carta. E poi raccontano che devi porre attenzione alle persone più che alla frenesia dello sport, che ti porterebbe a voler cambiare quando il risultato non arriva.

 

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Data di aggiornamento: 15 Luglio 2019
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