Beviti 'sto cielo azzurro

Paolo Conte, uno dei più innovativi e schivi cantautori italiani, ha compiuto 80 anni.
17 Gennaio 2017 | di

Canzoni da vedere le sue. Come fossero grandi quadri o perfette inquadrature cinematografiche. Per i nostalgici del «tinello marron», evocato in La ricostruzione del Mocambo, o di «armadi che tengono lini» e, già a vederli, odorano di «vecchie lavande» (Genova per noi, 1974), meglio metterci, per una volta, una pietra sopra.

Paolo Conte, astigiano, 80 anni il 6 gennaio scorso, pianista di formazione jazz, uno dei più importanti e innovativi cantautori, spazza via, ma solo per l’attimo del suo ultimo Amazing game, le parole. Sì, proprio quelle con cui gioca e tesse pura poesia. È lui ad aver inventato nuove locuzioni come «abbaia la campagna», «lo sguardo vitreo dei bicchieri di Boemia», «questo buio sa di fieno e di lontano», per citarne alcune.

Tutte entrate nel nostro immaginario, e non solo. Altra caratteristica stile Conte, il libero utilizzo, dentro le liriche, di sillabe e suoni onomatopeici che non fanno, però, da accompagnamento: sostituiscono, infatti, parole, versi e persino strofe. Un linguaggio innovativo, comunicativo, che parla da solo. Pensiamo a «Chips chips chips/ Du du du du du/ Ci bum ci bum bum...» da Via con Me e «Za za ra za/ Za za ra za/ Za za ra za ra za za za za!» da Bartali.

In questo ultimo lavoro Conte, personaggio schivo e lontano dai riflettori, torna alle origini. Ancor più all’essenzialità dei suoni, più evocativa forse delle parole. Un ritorno alla purezza nuda e cruda della musica. A partire dalle variazioni di colore e tonalità, visto che l’avvocato Conte (professione abbandonata nel 1974 per dedicarsi interamente alla musica) è anche pittore.

Una tavolozza che possiamo trovare, interamente racchiusa, anche dentro una sola nota o una sequenza improbabile di suoni. Amazing Game, uscito il 14 ottobre scorso, è molto più di questo. Tanto che, di fronte a tale sublime elegia, ogni parola risulta superflua e inappropriata. Meglio seguire quello che ci suggerisce l’autore: fare silenzio e ascoltare. Per Paol­o Conte è la sedicesima «valigia» in quarantadue anni. La partenza è giusto da qui. Da questo suo ultimo viaggio tra note e silenzi.

Msa. Niente parole, solo musica, maestro.

Conte. A 80 anni ci si può permettere qualche follia.

Che cos’è Amazing game?

Il lavoro contiene ventitré brani scritti in epoche diverse. L’occasione è venuta perché la Decca ci teneva a far uscire un disco strumentale molto apprezzato soprattutto al­l’estero.

Come nasce questo nuovo album?

Dai miei cassetti. I brani di Amazing Game sono tutte composizioni realizzate nel corso degli anni. Molti i ricordi legati a ognuna. Conservo tutte le mie composizioni. Così come le canzoni. Ne ho ancora tante nei miei cassetti.

Decca, non un marchio qualsiasi nel campo delle case discografiche…

Per me è un grande onore. Sono un vecchio collezionista e appassionato di vecchi dischi. Molti sono della Decca, dalle sessioni di Louis Armstrong alla fine degli anni Trenta fino a vinili del repertorio classico. Ne conservo ancora persino a 78 giri.

Quali brani ritroviamo in quest’ultimo lavoro?

Sono tutti pezzi che avevo scritto per conto mio e usato, in alcuni casi, come sottofondo per letture. Come alcune poesie di Montale o rappresentazioni teatrali per Corto Maltese di Hugo Pratt. Non c’è nessun rapporto tra i brani, il loro titolo e questa poesia o quella pièce teatrale. Sono scelte fatte così, senza un accostamento preciso.

Un album solo strumentale. Vuol dire che non scriverà più?

Ho sempre avuto il vizio di scrivere brani strumentali. Già in Razmataz ne avevo scritti molti. Posso continuare a scriverli proprio come scrivo le canzoni: per me è la stessa cosa. No, non rinuncio alla scrittura.

Da dove arriva questa grande passione per la musica?

Dai miei genitori. Loro erano dei grandi appassionati soprattutto di musica americana. Purtroppo, durante il regime di Mussolini, venne messa al bando. Così loro compravano al mercato clandestino dischi a 78 giri e me li facevano ascoltare. Li conservo ancora.

E quella per il jazz?

Fu lo zio Gino. Come tanti zii, rappresentava una sorta di fratello, di padre, di amico e, insieme, di complice. Era il prototipo del giovanotto del dopoguerra: alto, bello, biondo, avido di novità e di futuro. Mi portava ad ascoltare i giovani gruppi jazz.

Qual è il potere, la forza, il messaggio della musica?

Quello di essere semplicemente se stessa, che poi può essere tutto: acqua, fuoco, verginità, e sapienza.

Lei ci ha abituati a canzoni dalle parole forti: «la campagna abbaia» o «l’azzurro si beve». Qual è il loro compito?

Le parole fissano significati e concretizzano il lavoro.

In questo album, però, protagonista par essere piuttosto il silenzio. Anche quello tra una battuta e l’altra, tra una nota e un’altra…

Il silenzio è una grande installazione di esitazioni palpabili. Qui non ci sono le distrazioni che possono dare le parole, la musica racconta le cose in modo più astratto.

Piena libertà, dunque, anche a chi ascolta. Perché?

Non voglio lanciare messaggi o imprimere opinioni precise. Voglio lasciar sognare ciascuno con i propri colori, i propri suoni, le proprie esperienze e sensibilità.

Lei vive in provincia, in quella che ama chiamare campagna anche se è collina. Le sue canzoni sono anche luoghi, tonalità, odori, Che cos’è per lei il paesaggio?

In genere riflette in me sempre qualcosa di sacro e misterioso, come una specie di continua preghiera.

Lei è un artigiano della musica. Da dove trae ispirazione per le sue composizioni?

Dalla tastiera del mio pianoforte.

Il suo tour prosegue a febbraio con alcune date europee. Dove in particolare?

L’11 e il 12 a Parigi, il 25 ad Amburgo. Il programma prevede solo canzoni del mio repertorio classico. La formula è quella, ormai consueta, tra successi vecchi e nuovi.

Ottant’anni. Come vive questo tempo?

Tengo duro, cerco di reggere e di sognare ancora qualcosa.

Come ha festeggiato questo importante traguardo?

Con un po’ di malinconia e un po’ di felicità.

 

Nel frattempo Conte non smette di stupirci. Di recente si è cimentato con qualcosa di inedito: una canzone per bambini. Il che la dice lunga sulla curiosità e la voglia di sperimentare in questo signore di 80 anni solo all’anagrafe. Per i bambini,il maestro, grande appassionato di animali (l’album Nelson era dedicato al suo pastore francese briard), ha scritto Black Rhino.

La canzone appartiene a un progetto grazie al quale saranno regalate delle cucce ai rifugi Enpa. Il brano, contro il bracconaggio di rinoceronti, si trova in Amici cucciolotti 2017, cd uscito il 12 dicembre. La compilation è già popolarissima tra i bambini di scuole dell’infanzia e primarie. Protagonista il rinoceronte Black Rhino che, «prima si inchina a una serie di animali, poi scappa dai cacciatori. Alla fine si mette lui a inseguire gli umani, ma invece di incornarli, tira loro una gran scoreggia» spiega Enrico Giaretta, cantautore e pilota, che ha firmato le altre canzoni presenti nel cd.  

In occasione del suo compleanno, il cantautore ha finanziato il rifacimento delle strutture sportive della parrocchia di Nostra Signora di Lourdes, ad Asti, a cui lui e la moglie Egle sono molto legati. Proprio qui, il 6 gennaio, è stato festeggiato dalla comunità anche con una messa, l'inaugurazione del nuovo campo da calcio e un momento in compagnia. 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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