Il volto di Sarajevo

Il primo viaggio del Pontefice a Sarajevo, a vent’anni dalla fine del conflitto che infiammò la Bosnia-Erzegovina tra il 1992 e il 1995, mette sotto i riflettori una città divisa e piena di problemi che sogna un futuro di pace.
03 Giugno 2015

Il 6 giugno papa Francesco visita la Bosnia-Erzegovina per la prima volta. È il suo secondo viaggio apostolico in terre balcaniche, dopo quello in Albania (settembre 2014, ndr). Trova un Paese pieno di problemi e di speranze di cambiamento. 

Al mio amico Branko Karlic, giovane parroco di Vukanovici dal 1990 al 2002, sarebbe piaciuto conoscere questo Papa. Avrei voluto potergli chiedere cosa si aspettasse da questa visita per la sua Bosnia, ma non posso farlo perché è morto nel 2007, a 47 anni. Dopo aver frequentato questo Paese per tanti anni (inclusi quelli della guerra: 1992-1995), se dovessi scegliere un «giusto» tra i cattolici di Bosnia, lui è il primo che mi verrebbe in mente. Non l’unico, naturalmente, ma non vorrei che, partendo dai propri valori, qualcuno pensasse che in Bosnia-Erzegovina i cattolici sono tutti buoni. Non lo sono oggi, come non lo sono stati in guerra.

Che lo diventino è un buon auspicio (che non riguarda solo loro) e la visita del Papa è un’ottima occasione perché si realizzi. «Per me l’arrivo di papa Francesco sarà una luce per il buio che c’è in Bosnia, ma mi domando se avremo gli occhi per vedere la luce che il Papa ci porterà». Così scrive padre Stjepan Duvnjak, custode del convento di Kraljeva Sutjeska, centro spirituale dei francescani di Bosnia, aggiungendo: «Il suo arrivo è davvero importante, perché il Papa ha un grande sentimento verso la gente che soffre e vuole sinceramente aiutarci, anche a uscire dai nostri conflitti, aperti e nascosti».   A vent’anni dagli accordi di Dayton (1 e 21 novembre 1995), che posero fine alla guerra, è utile ricordare alcune cifre. Un Paese di 4 milioni di abitanti (prima della guerra) che ha avuto circa 100 mila vittime (dati: Centro ricerca e documentazione di Sarajevo). Tra gli identificati le percentuali sono: 67,8 per cento di bosniaci-musulmani (bosgnacchi, ndr); 25,8 per cento di serbo-bosniaci; 5,4 di croato-bosniaci e 1,0 di altri. Oltre la metà dei cittadini (dati: UNHCR, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) è stata costretta a lasciare le proprie case per trasferirsi in aree più omogenee, e per questo considerate più sicure. Tale migrazione forzata si chiama «pulizia etnica». Con questi numeri è difficile pensare che qualcuno dei principali gruppi coinvolti e qualcuna delle religioni coinvolte siano stati completamente innocenti.   Questa considerazione prescinde dal giudizio storico sulle responsabilità politiche e militari del conflitto, in particolare quelle dell’espansionismo serbo e croato a danno della Bosnia, ma è utile per capire il quadro di riferimento. La propaganda etno-nazionalista, al contrario, rovescia sugli altri ogni colpa. In una terra condivisa da oltre sei secoli da cattolici, ortodossi, musulmani ed ebrei (annientati dalle deportazioni naziste) e altre minoranze, sarebbe un errore pensare che la guerra sia stata dettata da motivi religiosi.  Il coraggio di un parroco «La convivenza nasce dalla pratica, dalle abitudini e dalle tradizioni della gente di Bosnia – diceva padre Branko nel 1996 –. La cosiddetta guerra è stata preparata da un gruppo di banditi che hanno ingannato la gente per realizzare i propri interessi privati». Se non è stata guerra di religione, è incontestabile che ciascun gruppo etno-nazionalista abbia abusato della sua religione per dividere il Paese con la guerra e se ne serva ancor oggi per ostacolarne la riunificazione.

La visione del mondo del parroco Branko Karlic, uomo di pace, era diversa da quella dei combattenti, anche di quelli cattolici. Vukanovici era un villaggio contadino di 500 abitanti, sulle colline sopra Kakanj. Una piccola enclave cattolica in un territorio a maggioranza musulmana. Quando, nel 1993 (l’anno della guerra tra croato-bosniaci e musulmani, del martirio di Mostar e della distruzione del suo ponte), i soldati croati arrivarono per spingere tutti a trasferirsi in aree più sicure e «ripulite» etnicamente, Branko riunì la comunità. «Dissi ai miei parrocchiani che ogni uomo ha diritto di vivere nella casa dove è nato e che era peccato andare a vivere nella casa e sulla terra rubata a un altro». Fu minacciato di morte per questo, accusato di essere un «traditore della Croazia e della Chiesa». «Gli dissi di spararmi lì, davanti a tutti, perché tutti vedessero chi aveva avuto il coraggio di uccidere un prete». I soldati non spararono (si limitarono a «requisire» la sua macchina e quant’altro ritennero utile) e la maggioranza dei cittadini rimase a Vukanovici. «Abbiamo seguitato a vivere accanto ai nostri vicini musulmani, con la nostra presenza abbiamo protetto il Paese, non ci siamo macchiati di colpe». La buona azione di Branko non piacque agli etno-nazionalisti (tutti), perché ostacolava l’opera di re-distribuzione etnica delle persone sul territorio, precondizione per arrivare alla divisione del Paese. Anche nell’immediato dopoguerra Branko si distinse. Quando ricevette una somma di denaro da destinare alla ricostruzione, invece di partire dal restauro della parrocchia comprò quaranta vacche da distribuire tra i contadini che avevano perso tutto. «Hanno bisogno di lavorare per rimanere. A riparare il tetto della chiesa penseremo dopo, tutti insieme» disse il parroco.   Il suo rapporto con l’informazione fu esemplare. Nell’estate del 1996 a Vukanovici lavoravano i volontari del Consorzio italiano di solidarietà, in particolare del Comitato di Bergamo, che coinvolgeva organizzazioni, laiche e religiose. Fui invitato a proiettare immagini del conflitto, una sorta di riassunto visivo del contesto nel quale si stavano muovendo. Branko propose che la proiezione fosse per tutti, non solo per gli italiani. Si raccomandò che non ci fossero omissioni nel racconto e ci offrì di farla in chiesa. Preparò un lenzuolo bianco al lato dell’altare, suonò le campane e la chiesa si riempì di persone. Proiettai immagini di guerra e di solidarietà, combattenti e profughi, senza distinzioni etniche. Nessuno dei presenti può dimenticare quell’esperienza. Poteva apparire una provocazione mostrare «a caldo» il dolore degli altri, sistematicamente ignorato dalla propaganda di guerra, invece ci fu partecipazione e commozione di tutti.   È difficile da accettare, ma se le religioni in Bosnia-Erzegovina sono state strumentalizzate, anche i loro simboli sacri possono avere un valore distorto nella percezione delle vittime.   Due donne invitate in Italia nel dopoguerra per un’iniziativa di sostegno alla loro cooperativa agricola erano ospitate presso un convento di suore. Entrando nell’edificio, la più giovane iniziò a tremare alla vista di un grande crocifisso. L’11 luglio del 1995, a Srebrenica, quella ragazza era stata strappata dalle braccia del padre da soldati con il crocifisso al collo. Non lo rivide più; le sue ossa furono identificate anni dopo in una fossa comune. Il crocifisso di quei soldati era ortodosso, ma per la giovane bosniaca questo non faceva molta differenza. 

Elevare una croce di oltre venti metri (perché sia ben visibile dal basso) sulla montagna sopra Mostar (la croce del Monte Hum, ndr), nello stesso luogo da cui i cannoni croati colpivano la parte della città dove i musulmani erano assediati e affamati, non trova una giustificazione nel culto e non esprime una volontà di pacificazione. Piuttosto rappresenta un monito e il sostegno a una posizione politica di separazione del Paese su base etnico-religiosa. «Dio mi perdoni, ma quella croce la vivo male, tanto che evito di guardarla», mi disse una ragazza cattolica, croato-bosniaca, di Capljina. Figuriamoci come la possono vivere gli altri.  Un Paese diviso L’Erzegovina è piena di esempi di questo tipo. Come la croce piantata sulla strada d’accesso alla cittadina musulmana di Pocitelj, bruciata e rasa al suolo nel 1993, ora spostata di lato e dedicata alla memoria dei caduti militari croati. Come quella davanti al luogo (Heliodrom) dove i prigionieri, principalmente musulmani, venivano rinchiusi e torturati a Mostar. Ci sono troppe croci per intimidire e dividere, invece che per pregare, in Erzegovina.   Un’eredità negativa degli accordi di Dayton è il complesso sistema istituzionale della Bosnia-Erzegovina, che non favorisce la riunificazione del Paese e ne ostacola la ripresa. Prendendo atto dello status quo militare alla fine della guerra, gli accordi definirono un sistema istituzionale per mantenere unita la Bosnia all’interno dei precedenti confini statuali, ma dividendo il suo territorio in due entità costitutive e un piccolo distretto autonomo (con un privilegio fiscale). Sono: la Federazione di Bosnia-Erzegovina (divisa in dieci cantoni), la Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina (divisa in sette regioni) e il distretto di Brcˇko. Nel 1995 la priorità della diplomazia internazionale era che le tre etnie principali fossero rappresentate nelle istituzioni. Gradualmente, sarebbe ripresa una dialettica politica basata sui programmi anziché sulle appartenenze e si sarebbe avviato un processo di riforma istituzionale verso la riunificazione del Paese. Questo superamento di Dayton non c’è mai stato. Al contrario, c’è stato un accordo non scritto tra le forze locali per mantenere la divisione e amministrare i profitti che derivano dalla gestione del potere, senza alcuna visione di lungo periodo o cura per l’interesse generale.   Nel 2009, due rappresentanti di minoranze non tenute in considerazione a Dayton (ebrei e rom) mostrarono all’Europa che «il re era nudo»: si appellarono alla corte di Strasburgo accusando la Costituzione bosniaca (figlia di Dayton) di violazione della Convenzione europea dei diritti umani e vinsero la causa. A tutt’oggi l’assunzione dei principi della mozione Sejdicˇ-Finci è una delle precondizioni per avviare l’ingresso in Europa della Bosnia-Erzegovina. In una battuta, si può dire che oggi la Bosnia-Erzegovina è la nazione in area europea con il più alto numero di amministratori pubblici pro-capite. La propensione alla malversazione di fondi pubblici è oggetto di satira e disaffezione al voto (astensionismo al 46 per cento), ma genera anche proteste di piazza improvvise e violente, come quelle del 2014.   Quando la percezione sul futuro è negativa, chi può emigra. Se prima erano i giovani o quelli in possesso di un buon curriculum a farlo, oggi partono le famiglie. L’emigrazione dai cantoni a maggioranza croata della Federazione di Bosnia-Erzegovina è ancora più alta, perché facilitata dalla possibilità di avere un doppio passaporto (offerta dal governo croato). Le domande di asilo politico in area Shengen nel 2013 sono state 53.700. Così scrive padre Stjepan Duvnjak: «Abbiamo una situazione di stallo, abbassamento della qualità della vita sociale e individuale in tutti i campi, un grande numero di disoccupati, abbassamento della qualità dei servizi sanitari, nell’educazione scolastica e culturale. Inadeguata e minima assistenza agli anziani. I giovani portano i loro sogni fuori dalla Bosnia».   Il sistema scolastico separato è un altro segnale dell’anormalità bosniaca. I programmi sono diversi secondo le nazionalità degli studenti. Contro questo si batte l’ex-generale Jovan Divjak, storico difensore della città di Sarajevo. La sua organizzazione si chiama «L’istruzione costruisce la Bosnia-Erzegovina». Il suo programma non potrebbe essere più esplicito, fin dal nome.   «Si deve educare la gente a non dividere le vittime della guerra, ma a osservare le proprie anche nella prospettiva delle vittime dell’altro – osserva ancora padre Stjepan Duvnjak –. Finché non si crea una pietas sincera nei confronti delle vittime altrui è difficile aspettarsi un sincero dialogo tra i vivi. L’identità della Bosnia necessariamente contiene in sé la molteplicità. L’identità comune non deve assorbire le differenze, e le differenze non devono distruggere l’identità comune. Riconoscere l’altro non significa assimilarlo o farlo uguale a noi, ma permettergli di essere diverso nella forma sociale, culturale e religiosa».   Il ritardo nella definizione di un diritto di cittadinanza uguale per tutti è ancora al centro delle difficoltà del Paese e nasconde i veri problemi. Non è per nulla scontato che entrare in Europa, aderendo alle formule imposte dalla troika (organo di controllo informale composto dai rappresentanti di Commissione europea, Fondo monetario internazionale e Banca centrale europea, ndr), rappresenterebbe un vantaggio per il Paese. Privatizzazioni e compressione della spesa sociale non hanno prodotto crescita, ma il contrario. La disoccupazione giovanile è arrivata al 59 per cento (fonte: ILO, Organizzazione internazione del lavoro) e oltre mezzo milione di persone è iscritto alle liste di collocamento.   I maggiori partiti locali, molto cambiati dalle loro origini storiche e ideologiche, sembrano accettare le direttive europee. Dopo campagne elettorali teatrali, praticano le larghe intese e gestiscono il potere in modo clientelare. Nella protesta, i cittadini bosniaci (bosgnacchi, serbi o croati che siano) si ritrovano uguali come disoccupati, indeboliti nel reddito e nei servizi sociali, ma non trovano uno sbocco politico per le loro istanze. Nelle situazioni di crisi la demonizzazione degli «altri» resta un elemento di propaganda populista forte. Alle ultime elezioni si è votato per appartenenza, nonostante i partiti beneficiati del voto si assomigliassero tra loro. Un riflesso positivo dell’ingresso in Europa potrebbe essere quello di rimuovere i paraventi «etnici», importando diritti sanciti sulla Carta europea, e di far ripartire il confronto politico sui problemi reali.   Una cosa è certa: ancora oggi c’è chi vuole mantenere unito il Paese e chi no. Per questi ultimi l’aggravarsi della crisi può essere un passo necessario verso la fine della Bosnia-Erzegovina come Stato unitario (ma per capire se e quando sarà il momento per questo, bisognerà guardare a Zagabria e a Belgrado più che a Sarajevo, come nel 1991).   Così diceva padre Branko Karlic nel 1996: «Ho sempre distribuito gli aiuti che mi venivano dalla Caritas e dall’estero tra tutti, senza distinzione di religione, perché Dio è amore. Spero che la Bosnia risorgerà e che tutti gli uomini di buona volontà possano tornare a vivere insieme. Dobbiamo imparare dalle sofferenze per costruire un futuro migliore».   Branko, Stjepan e Francesco sarebbero stati buoni amici. C’è tanto lavoro da fare in Bosnia, per ritrovare fiducia nelle proprie forze e uscire dal rancore.    

PERO SUDAR«Il grande pericolo? Perdere la speranza»

 a cura di Antonio Gregolin  Un Paese martoriato dai conflitti interni, dalla corruzione e dalla crisi economica: ecco come vede la Bosnia-Erzegovina monsignor Pero Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo.   Nato a Bare, nalla diocesi di Vrhbosna-Sarajevo 63 anni fa e consacrato vescovo ausiliare della stessa nel ’93, Pero Sudar conosce a fondo la terra che ospiterà Papa Francesco il 6 giugno. Con lui abbiamo discusso dello stato di salute della Bosnia-Erzegovina, e delle ferite del suo popolo, ancora non del tutto rimarginate.  Msa. Vent’anni dopo la guerra, che Bosnia-Erzegovina trova il Papa oggi? Sudar. Bisogna sottolineare che quest’anno ricorrono non solo i vent’anni dalla fine della guerra, ma anche dall’avvio degli accordi di Dayton perché, purtroppo, anche le conseguenze di questi accordi si sono rivelate disastrose. Il cosiddetto mondo democratico, infatti, è riuscito a fare con essi ciò che i politici comunisti non sono riusciti a fare con la guerra, vale a dire dividere etnicamente e ingiustamente la terra della Bosnia ed Erzegovina (BeE) in maniera da renderla ingovernabile e pericolosa per i propri cittadini e per il mondo. In venti anni di implementazione degli accordi di Dayton è andata persa la speranza, cioè quella preziosa forza vitale che la nostra gente era riuscita a conservare anche durante la guerra. Tornando alla domanda, quindi, il Papa trova un Paese che corre il grande pericolo di perdere la speranza e la fiducia di poter sopravvivere.  Con i croati di Bosnia pronti a chiedere l’indipendenza, il vento separatista sembra essere tornato a soffiare. Si rischia un’ulteriore frammentazione del Paese? I croati non hanno mai chiesto l’indipendenza o la frammentazione del Paese. Chiedono solo ciò che la comunità internazionale, capeggiata dall’amministrazione americana, a causa degli interessi imperialisti, con gli accordi di Dayton ha dato ai serbi di BeE e, con l’implementazione degli accordi, ha concesso ai bosgnacchi musulmani. Ai serbi è stato dato un vero Stato, cioè la Repubblica serba di Bosnia, ai bosgnacchi la supremazia nella Federazione. I croati chiedono dunque l’uguaglianza, vale a dire un territorio come mezzo per proteggere la loro sopravvivenza in questa terra, ma anche la sopravvivenza della stessa convivenza in questo Paese. Questa legittima richiesta non viene capita e la spartizione della BeE diventa sempre più evidente e definitiva.  Disoccupazione, emigrazione, corruzione: tra tutti i problemi che affliggono la Bosnia-Erzegovina, quale la preoccupa di più? Il fatto che i fautori della situazione attuale cerchino in tutti i modi di nascondere che sia proprio la situazione politica, o la cosiddetta Costituzione, a generare quelle piaghe. Senza la volontà di correggere le ingiustizie degli accordi di Dayton, senza una riorganizzazione della soluzione politica, questo Paese non può avere un futuro. Visto lo scenario in Ucraina, temo che la comunità internazionale continuerà a trovarsi nelle mani di gente senza scrupoli, in grado di sacrificare interi popoli e rischiare la pace mondiale per i propri interessi.  La recente rivolta a Sarajevo è parsa dare adito a un ritorno della violenza… La gente è stanca di vivere senza lavoro e prospettiva. Però non trova il modo di dare voce alla sua miseria. Il rovesciamento dell’apparato politico locale, avvenuto in alcune zone del Paese, non ha risolto niente. Il quadro generale fa paura ai grandi investimenti economici, senza i quali un Paese distrutto dalla guerra non potrà riprendersi. I massicci aiuti internazionali e il grande contributo della nostra gente che vive all’estero (circa 1,7 miliardi di euro all’anno, cioè il 19 per cento del Prodotto interno lordo) servono solo a mantenere un enorme apparato amministrativo. Auspico, quindi, l’impossibile: il cambio della mentalità egoistica dei «grandi» e la rivoluzione spirituale dei «piccoli» di questo nostro mondo.  Crede che le ferite interiori nelle persone segnate dalla guerra si siano rimarginate? No. La soluzione politica ingiusta, imposta in vece della vera pace, ha creato condizioni che alimentano il risentimento e l’antagonismo. La mancanza di lavoro, la discriminazione etnica, la corruzione non favoriscono il processo di guarigione delle ferite. Anzi.  Come vede la nuova generazione del dopoguerra? La maggioranza dei nostri giovani dà l’impressione di essere stanca di tutto e di interessarsi poco a ciò che è avvenuto ai loro genitori e a questa terra che lasciano con troppa facilità.    

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017

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