L’epoca degli «sdraiati»

A tu per tu con Francesca Archibugi, regista pluripremiata, che ha diretto il recente «Gli sdraiati», tratto dall’omonimo libro di Michele Serra. Un ritratto appassionato della generazione dei «millennials».
19 Marzo 2018 | di

Diciassette anni, passano il pomeriggio sul divano a «smanettare» sullo smartphone o ipnotizzati dai videogames: millennials disordinati, disubbidienti, apatici. Sdraiati. O magari sono in giro con amici, appiccicati l’uno all’altro come in branco, a sentirsi padroni della città, del loro mondo. Dall’altra parte ci sono i genitori, a volte distratti o assenti, talora esageratamente protettivi, inquieti, ansiosi. È un dialogo difficile, quello che Michele Serra ha distillato ne Gli sdraiati, il suo bestseller del 2013, una lunga lettera (senza risposta) di un padre a un figlio, un confronto generazionale a tratti amaro, ma con sprazzi di speranza. Francesca Archibugi, regista di grande sensibilità, da sempre delicata esploratrice dei sentimenti, ha deciso di portarlo sul grande schermo: «Mi ha attratto lo “sguardo azzurro” di Serra, così ironico e anche malinconico. La solitudine di un padre che si sente chiuso fuori dalla vita del figlio. Lui incompreso, e forse non amato», rivela.

E così, insieme con Francesco Piccolo, ha trasformato quel monologo in un affresco a più voci, un romanzo familiare: c’è Giorgio Selva, famoso giornalista tv, milanese, borghese, stretto tra paure e fantasmi; c’è Tito, suo figlio, spavaldo e refrattario alle regole che «l’Esaurito» (il padre) vorrebbe imporgli; ci sono i suoi amici, Lombo, Pippo, Yacco, Boh, e c’è pure Alice, compagna di classe e fidanzata di Tito, figlia di Rosalba che diciassette anni prima era stata la domestica e la «fiamma» del papà. Uscito nelle sale lo scorso autunno (e questo mese in dvd), in una produzione Indiana e Lucky Red con Rai Cinema, il film di Francesca Archibugi con Claudio Bisio, Gaddo Bacchini e Antonia Truppo ci porta a scoprire – o a riscoprire – quanto sia difficile diventare adulti, ma anche quanto sia faticoso invecchiare.

Msa. Signora Archibugi, che cosa l’ha colpita del libro? Archibugi. Mi è sembrata molto attuale la figura del padre alle prese con un figlio sfuggente, di cui non capiva nemmeno bene i sentimenti e la posizione rispetto alle cose. Mi ha fatto riflettere su quanto a volte si possa sbagliare per eccesso di indulgenza: il bisogno continuo di inseguire i figli e di cercare una relazione con loro in realtà li fa allontanare sempre più e finisce quasi per impedire la comunicazione. Il padre di Tito, poi, è animato da un enorme senso di colpa verso se stesso, come se avesse sbagliato tutto, nella sua vita e nei suoi rapporti.

Siamo di fronte a una crisi di autorevolezza dei genitori? Io non sono una sociologa, e nei miei film non intendo certo presentare tutti i padri o tutti i figli d’Italia: questo è un rapporto unico e, per certi aspetti, educatamente molto estremo. Mi sembra significativo di come si sia assestata la nostra vita e di come, tutto sommato, siamo attaccati anche a cose futili. In un’epoca in cui ragazzi di tutto il mondo arrivano qui con problemi enormi, attraversando il mare sui barconi o scalando montagne, noi, nelle nostre case borghesi, ci troviamo a discutere se un vasetto di yogurt vada rimesso o meno in frigorifero. Non è soltanto una questione tra Tito e il padre, ma è lo smarrimento che io noto tutt’attorno, in tutti quanti.

Sono più «sdraiati» i figli o i padri? Entrambi: il padre davanti al figlio, e anche il figlio verso il padre. L’adolescenza ormai si protrae in modo abnorme: un ragazzo di 17 anni è tenuto quasi come un bambino e non è chiamato a responsabilità, proprio come un bimbo, quindi la maturazione arriva molto più avanti. Il mio non vuol essere un bilancio generazionale: semplicemente, anche come madre di tre figli, osservo la fatica che i giovanissimi di oggi fanno nel mettersi in piedi e nell’affrontare il mondo.

Per lunghi periodi la politica, la religione, l’impegno sociale sono stati punti di riferimento e motivi di coesione per i giovani. Oggi non più? Di sicuro c’è stato un riflusso e un ritorno a una dimensione meno collettiva. Purtroppo oggi si vede un rigurgito di comunanze spesso sinistre: nello stare insieme emerge uno spirito più distruttivo che costruttivo, e i luoghi in cui la gente si identifica e fa gruppo sono le curve da stadio e le piazze piene di insulti. Nelle tifoserie calcistiche, per esempio, si sfoga anche il bisogno di stare insieme e di credere tutti insieme in qualcosa.

Anni fa si stava insieme con uno spirito diverso... Dalla fine della Seconda guerra mondiale fino agli anni di piombo si è sempre sperato in un mondo migliore, tentando di costruire qualcosa di positivo. Ora stiamo vivendo un contrappasso. Ma, a mio parere, non bisogna drammatizzare: sono una progressista e penso che pure un contrappasso possa avere un senso per fare un nuovo passo.

Da Mignon è partita a Il grande cocomero o L’albero delle pere, lei ha affrontato spesso storie di giovani. Perché? In una famiglia, come in un condominio, ci sono tutte le età della vita. Non sono io che metto i bambini o i ragazzi nei film: ho l’impressione che sia­no gli altri che li tolgono. Il cinema spesso si «stringe» nel racconto di altre età, tra i 20 e i 40 anni, e mi sembra un po’ limitato.

Sono cambiati i ragazzi in questi anni? Da narratrice mi interessano sentimenti primari che sono immutabili negli esseri umani. A ogni passaggio di generazione sembra quasi che cambi la natura dell’uomo, e non è così: credo che la gelosia che provava Saffo secoli fa, e che raccontava nelle sue poesie, non sia poi tanto differente da quella che possiamo vivere noi.

Ma quanto influiscono tecno­logia, nuovi media, social? La tecnologia, in fondo, è solo l’accessorio di un’epoca. Certo, il telefonino è entrato nella nostra vita e l’ha cambiata, ma era accaduta la medesima cosa con l’introduzione del motore a scoppio o con altre invenzioni. Dentro gli esseri umani, fin dai tempi più antichi, c’è invece un bisogno di relazioni primarie che è molto più robusto e profondo di quanto noi crediamo, e non viene scalfito dai cambiamenti antropologici tutt’attorno. Queste strutture di rapporti, che sono in realtà immobili, sono le più interessanti.

 

L’intervista completa nel numero di marzo del «Messaggero di sant’Antonio» e nella versione digitale della rivista.

Data di aggiornamento: 19 Marzo 2018
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