Il medico a cavallo
«Ande’ n’ ti ca’». «Venga in casa», dice l’anziana signora al medico che, almeno due volte al mese, passa a trovare lei e il marito per una visita a domicilio. Siamo nelle colline tra La Morra e Verduno, 70 chilometri a sud di Torino, nel cuore delle Langhe.
Fuori dall'abitazione lo scenario è da cartolina: una distesa mozzafiato di vigneti ordinati, alberi di nocciolo e boschi. Un territorio che Roberto Anfosso, medico di base dell’Asl Cn2, conosce palmo a palmo. Quando i suoi pazienti, soprattutto i più anziani che abitano in zone isolate, non possono recarsi in ambulatorio, allora è lui che va da loro.
Il dottore si muove sempre in compagnia di un amico, in verità di un’amica. Si chiama Ambra: è una puledra di 3 anni, dalla chioma fulva, proprio come il suo nome, brillante e curata.
Da sempre, per spostarsi, Anfosso preferisce il cavallo all’auto. «Faccio prima. Al galoppo è più facile raggiungere cascine e abitazioni sperdute in mezzo alla campagna – spiega il medico di famiglia –. La conformazione del territorio è un continuo saliscendi, un declivio in genere dolce, ma a tratti anche molto impervio.
A cavallo posso uscire dal tracciato stradale e percorrere scorciatoie in mezzo ai boschi. Dai miei pazienti ci vado in ogni stagione, estate o inverno, col bello e col cattivo tempo, con la neve, il ghiaccio e il fango».
Ai lati della sella ha sistemato due bisacce. Dentro ci sono i classici «ferri» del mestiere: il misuratore della pressione, uno stetoscopio, le impegnative per i farmaci e le visite specialistiche, i medicinali per eventuali urgenze.
«Di solito mi sposto a cavallo per le visite di routine: due o tre volte al mese mi reco a casa dei miei assistiti, soprattutto i più anziani. Sono visite non urgenti: misuro la pressione, tengo monitorato il diabete, effettuo un controllo nel caso siano influenzati. In genere sono pazienti dai 70 anni in su, tra loro anche qualche centenario.
In media percorro, in sella ad Ambra (e, prima, a Sissi che ora è andata, per così dire, in pensione) dagli 80 ai 100 chilometri ogni settimana. Nei primi tre anni ho fatto più di mille visite. Ora non le conto più».
In luoghi periferici, in cui i collegamenti con ospedali e centri di emergenza sono difficoltosi come nelle aree di montagna o nelle isole, tra medico e paziente si instaura un rapporto stretto, di fiducia, famigliare.
«Sono nato in città, a Torino. Nelle Langhe ci sono arrivato quasi per caso, nel 1982, due anni dopo la laurea. Conoscevo l’allora medico di base, mi chiese di far pratica da queste parti. Non me ne sono più andato: la natura, l’ambiente, la qualità della vita, ma soprattutto le relazioni tra le persone mi hanno fatto decidere, senza esitazione, che non sarei più tornato indietro».
Non sempre gli interventi sono ordinari. Possono presentarsi situazioni in cui è necessario agire d'urgenza e alle quali un medico non può sottrarsi.
«Sono i casi in cui l'intervento immediato è vitale. Tra le storie più belle? Di sicuro il poter dare l’assistenza medica necessaria per far nascere una nuova vita. Mi è capitato nel caso di un parto cosiddetto precipitoso. Tutto è andato per il meglio. La mamma ha dato alla luce un maschio. In segno di riconoscenza i genitori hanno voluto chiamarlo col mio nome. Ogni volta che mi incontrano, mi ringraziano».
È una mattina di aprile. Il dottor Anfosso sta svolgendo il suo consueto giro di visite. A cavallo si reca da un'anziana che lo sta aspettando fuori dalla porta. La donna abita a 6 chilometri dal paese, in una cascina tra campi e filari di vigne. Vicino alla casa un grande orto, il fienile, il pollaio, il ricovero attrezzi, una stalla.
«Nelle zone rurali sopravvive ancora una cultura molto differente rispetto alla città, a partire dalla dedizione e dalla cura tra le persone e per i rapporti umani – spiega il medico –. Le cascine sono unità famigliari allargate. Ci si conosce tutti, ci si presta le cose, si scambiano i prodotti, ci si ritrova per le feste. In genere l’anziano o il disabile non vengono portati nelle residenze sanitarie assistite. Fin quando è possibile, rimangono in casa, dove vengono accuditi dai famigliari.
Il malato, l’anziano, il disabile sono parte integrante della famiglia e della comunità. È normale, quando non ci sono patologie gravi, assistere tra le mura domestiche».
Una cultura antica mai venuta meno che il medico spiega attraverso alcuni semplici gesti quotidiani. «Stamattina, nonostante mi trovassi già in casa (avevo appena finito la mia visita), la paziente mi ha comunque invitato a entrare dicendomi, in dialetto: “Ande’ n’ ti ca’”. “Venga in casa” significa, di fatto, “venga in cucina” perché questo è il luogo della condivisione, dell’accoglienza, dell’ospitalità.
“Venga in cucina” significa “venga, beviamoci insieme un bicchiere di vino” che, qui, è ottimo. Del resto, tutti o quasi sono produttori. Il vino, oppure un pezzo di formaggio, non sono solo una bevanda o un cibo. Dentro ci sono il lavoro, la fatica, la cura con cui il contadino si occupa della campagna e dei suoi frutti; più in fondo, l'anima di una terra e della sua gente.
Poi, c'è sempre il tempo per una chiacchierata e un grazie. Sì, perché da queste parti la gente non dimentica mai di ringraziare». Pure Ambra fa la sua bella parte. «Quando arrivo a cavallo – prosegue – è come se il paziente percepisse che il dottore ha più tempo da dedicargli. Si crea una relazione speciale, molto umana, meno istituzionale».
D’altra parte per Anfosso il cavallo non è soltanto un mezzo, ma una passione. «In verità, da ragazzino sognavo di fare il calciatore. Il mio idolo era Omar Sivori. A 14 anni mi fu diagnosticata un’asma bronchiale, quindi pensai a uno sport in cui qualcun altro potesse correre al posto mio.
La lezione più importante della vita la ricevetti in un maneggio. Ci andavo d’estate per non stare in spiaggia. Mi piaceva così tanto che il proprietario mi affidò dei cavalli per accompagnare i turisti in escursione. Ero un ragazzo, amavo il brivido, quel senso di libertà illimitata che deriva dal correre al galoppo. Così, nella mia avventura con i cavalli lanciati a tutta velocità, coinvolsi anche alcuni turisti.
Al rientro mi pigliai una lavata di capo. “Tutti sarebbero capaci di fare quello che hai fatto tu – mi disse il titolare –. Quello di cui dobbiamo, piuttosto, preoccuparci è di stare dalla parte di chi è in difficoltà, sempre».