Sant’Antonio dell’oceano
Il nuovo governatore portoghese del Castello di Elmina, Pedro Mascarez, si lasciò convincere dagli uomini della sua ciurma. Si erano messi a gridare tutti assieme: «Un miracolo»! Il volto della statua raffigurante san Francesco era diventato nero. Era un segno ben chiaro. Il santo era pronto a sbarcare sulla Gold Coast, la Costa dell’Oro. Era il 1632, gli anni selvaggi di una prima globalizzazione, l’Africa occidentale era terra di ricchezze da depredare. I santi viaggiavano con i mercanti, i tagliagole, i soldati. Nella stiva di quella nave vi erano tre statue: raffiguravano Francesco, la Vergine Maria e Antonio di Padova. Vennero sistemate nella cappella del Castello.
Poco tempo dopo, un uomo del villaggio impazzì. Fuggì nella foresta. Venne dato per morto. Si celebrò il suo funerale. E lui riapparve. Guarito. Si diresse alla cappella del Castello e indicò la statua di sant’Antonio: «Ho incontrato quest’uomo, lui mi ha salvato». Chiese di essere battezzato. Appena in tempo: nel 1637 i portoghesi furono cacciati dalla Costa dell’Oro, gli olandesi si impossessarono del Castello. I nuovi mercanti erano negrieri: quelle spiagge infinite si trasformarono nella Costa degli Schiavi. Gli olandesi erano calvinisti, detestavano le immagini. La statua scomparve. Antonio divenne culto clandestino.
Nella valle del Silenzio
Questa è la storia di un lontano passato del Ghana, terra dell’Africa occidentale. Una storia antica che riaffiora di continuo. La racconto a un frate a Padova: «Attento – mi avverte –, alla fine Antonio ha una vita propria». Me ne convinco quando mi ritrovo davanti a un centinaio di donne (e qualche uomo) che gridano, cantano, piangono, ridono, ballano, sudano, offrono denaro e cibo, si inginocchiano, si abbracciano, applaudono in un giorno di festa a Saltpond, città della costa occidentale.
Siamo nella Valle del Silenzio, comunità francescana, luogo di una bellezza quieta e protetta. Come un predicatore, un giovane frate guida la preghiera collettiva. Una cantante minuscola e dalla voce potente commuove, infiamma, incoraggia i Saint Anthony’s guilds, i devoti a Sant’Antonio, confraternita cattolica ghanese. Ho voglia di gettarmi in mezzo a queste donne. A cosa sto assistendo? Devozione africana e popolare a un santo bianco? Eredità di quella statua scomparsa nella prima metà del ’600?
Quando si resero conto che avrebbero dovuto andarsene, i missionari portoghesi nascosero le tre statue nelle capanne di famiglie fidate. Non erano molti i cattolici a Elmina: meno di quattrocento, in bilico tra gli antichi riti tradizionali e la nuova religione. Molti credevano che Antonio fosse un mago potente.
Abaka ha 67 anni e indossa una variopinta camicia dove spicca il ritratto di sant’Antonio. Fa parte dei Saint Anthony’s guilds di Saltpond. Mi spiega: «La gente di Elmina si accorse che quella statua aveva poteri speciali». Racconta Joseph, leader dei guilds a Elmina: «Tutti andavano a pregare quella statua. I cristiani e i tradizionalisti. Pregavano assieme. E Antonio ascoltava ognuno di loro». Ho un sobbalzo: a Istanbul, anni fa, chiesi a una donna musulmana le ragioni della sua preghiera a un santo cattolico, e anche lei mi rispose: «Antonio ascolta».
Il culto a «Naná Ntona»
Per oltre due secoli (i missionari cattolici tornarono a Elmina solo nel 1880), Antonio è stato il culto più popolare di questa città sull’oceano. «Ha compiuto prodigi», ricordano i vecchi. Aveva davvero una vita propria: al tempio andava chi ricordava, oramai confusamente, le storie dei cristiani e chi pregava le divinità dell’oceano, del cielo, della foresta. Per molti, Antonio divenne obosom, un Dio. Conosciuto come Naná Ntona. Naná sta per «capo», per «autorità». Il suo tempio, Ntona buw, divenne un suman, un «luogo sacro». E inviolabile, se è vero che fu rifugio per gli schiavi che riuscivano a sfuggire alle catene dei negrieri.
I fedeli, nel quartiere di pescatori di Bantuma, erano conosciuti come Santonafo, il «popolo di Antonio». Quando il raccolto era minacciato dalla siccità, le donne si recavano al tempio di Ntona, donavano patate dolci e uova al sacerdote per invocare la grazia della pioggia. Ogni anno, a giugno (nel mese del Santo!) si celebrava, con una processione solenne, la sua festa, il Kotubun Kese, la grande festa della Natura. La statua veniva condotta di fronte all’oceano e lavata, e l’acqua così benedetta era utilizzata per cacciare i cattivi spiriti dal villaggio e per curare i malati. La memoria di Antonio ha resistito al tempo.
Ho la versione di Amo Annan. Ha 75 anni e una bella barba bianca. «La nostra famiglia fondò Elmina nel 1300. Quando arrivarono i portoghesi conoscemmo Anthony. Quando se ne andarono, noi nascondemmo la statua». Amo Annan oggi è il custode del tempio di Naná Ntona, una casupola tra i vicoli di terra del quartiere di Bantuma. Il dominio degli olandesi finì nel 1873. Allora, gli inglesi, per impadronirsi di quella costa africana, bombardarono Elmina. Il tempio di Naná Ntona venne distrutto. La statua andò in pezzi. Come se fossero reliquie, i fedeli ne raccolsero i frammenti. Li conservano tuttora.
Nel 1890, sbarcò una nuova statua di Antonio a Elmina. I missionari europei diffidavano del culto tradizionale: avevano bisogno di una diversa immagine del Santo. La sistemarono a fianco dell’altare maggiore nella grande basilica di Saint Joseph, sulla collina più alta del villaggio. Giorgio Abram, uno dei primi francescani a vivere in Ghana, ricorda che il sacerdote di Naná Ntona chiese di poter vedere la nuova statua. Ne fu felice: «È identica a quella che i nostri avi hanno conservato per secoli». Ritornò al suo quartiere e continuò il suo culto. Un secolo dopo, nel 1979, due francescani italiani, Giuliano Abram ed Emilio Gallo, incuriositi da quella storia leggendaria, andarono a cercare il tempio nel quartiere dei pescatori. Convinsero il custode a lasciarli entrare: «Veniamo dalla terra di Antonio, siamo qui per pregare». Giuliano fotografò la statua.
Le terre africane di Antonio
Questa mattina, assieme ad Augustine, frate ghanese, sono andato al mercato: abbiamo comprato incenso cinese, una cassa di aranciata, acqua Florida (un’acqua rituale, «fabbricata» a New York) e preparato una busta con dentro dei soldi. In chiesa abbiamo preso due scatole di candele. Sono i doni chiesti da Amo Annan per aprirci la porta del tempio di Antonio.
È una costruzione piccola, malmessa, tirata su con blocchi di cemento corrosi dell’umidità. Davanti all’ingresso vi è una pietra ancestrale. Entriamo. Due uomini sono a torso nudo. Non posso fotografare. Hanno acceso le candele, mormorano preghiere, spruzzano l’aranciata sopra due teschi sotto l’altare, accendono l’incenso. Invocano Anthony. C’è una sua statua di gesso. Bianca, consumata. Bella. Devo chiedere una grazia. Mi mettono in mano le candele, la bottiglietta di acqua. Bevo un sorso di aranciata. Mi danno un sacchetto con la terra, da portare a casa. Sono benedetto da Naná Ntona.
Chiedo ad Amo il racconto di un miracolo. Mi mostra sul display del suo cellulare la foto di un permesso di soggiorno italiano: «Quest’uomo era stato imprigionato in Libia. Abbiamo pregato Anthony per lui. È stato liberato, è arrivato in Italia e ha avuto i documenti per rimanervi».
«Tutto è cominciato con quella statua», mi dice un frate ghanese. Nel ’900, i fedeli cattolici di Antonio si moltiplicarono per le terre rosse del Ghana. Fondarono un’associazione di devoti: i Saint Anthony’s guilds di cui abbiamo parlato all’inizio dell’articolo. Nel 1970 i loro rappresentanti, grazie ai vescovi ghanesi, vennero in Italia. A chiedere ai francescani di aprire missioni nella loro terra. Una terra africana di Antonio.
Mi sveglio alle quattro del mattino. Ogni martedì, giorno del Santo, a Elmina, i guilds di Antonio salgono la collina della basilica di Saint Joseph. Da qui, gli occhi si perdono sull’oceano. Avverto il filo rosso di una storia sacra. Quattro secoli fa, Antonio ha aperto una strada per i cristiani dell’Africa occidentale. Il Ghana è il paese più cristiano di questa parte del continente. Più del 70 per cento dei 26 milioni di ghanesi sono cristiani. In grande maggioranza protestanti. Oltre tre milioni sono cattolici. È considerato il Paese più religioso del mondo. Tutti hanno una fede, spesso le fanno convivere le une con le altre. Ci sono miriadi di one-man church, nuove chiese che sorgono dal nulla. Like mushrooms, come funghi. Ne conto almeno venti nella strada di Accra che conduce al convento francescano.
Paese che stordisce, il Ghana: booming country, crescita dell’8,6 per cento nel 2017. Accra è considerata una città di affari. In Africa ho imparato a non capire. Affari e fede. Povertà estrema e ragazzi disoccupati che sognano l’Italia. Le cerimonie religiose sono infinite. Durano ore e ore. Una festa. Un ritrovarsi. Osservo frate Eugene, giovane parroco della chiesa di San Francesco, nella periferia della capitale, accogliere, uno per uno, i fedeli alla Messa della domenica. Dalla mia finestra al convento ascolto le preghiere dei musulmani, i canti dei pastori protestanti, i sussurri dei salmi dei frati e i bassi veloci e ossessivamente reggae di un rock-cafè. Il Ghana nella notte.
Pongo sempre la stessa domanda a tutti. Chi è Antonio? «È spirito. Uno spirito superiore», mi ha risposto Amo Annan, il custode del tempio tradizionale. «È stato un uomo di grande spiritualità. Noi cerchiamo di imitarlo», mi dice John Amakye, uno dei leader nazionali dei Saint Anthony’s guilds. «È un modello per noi. Ci insegna l’umiltà», mi spiega Anthony Bezo, custode della provincia francescana di Ghana.
Frate Augustine è stata la mia guida per Elmina. Ha 37 anni. Mi racconta: «Mio nonno è musulmano, mio padre è cattolico, mia madre è fedele di una one-man church, mio zio è sacerdote tradizionale». Sorprendo questo frate, piccolo e giocoso, mentre prega, inginocchiato nella sua stanza di fronte a un’immagine di sant’Antonio. Davanti a lui una bottiglietta con acqua benedetta a Padova, un rosario, un bambolotto-frate e una candela. Augustine è la rappresentazione di questo Ghana della fede.