Cappellani ospedalieri: «È Lui il vero ristoro»
Daniele è poco più che cinquantenne. Sposato, ha due figli. Una bella famiglia, uno studio professionale ben avviato e una carriera ancora aperta. La vita gli sorride fino a quando, dopo una colica renale e accurate analisi, si rivela in tutta la sua drammaticità qualcosa di più serio: tumore al pancreas. Inizia subito la chemioterapia. Lo attendono mesi difficili, l’intervento previsto in primavera. Con un’unica speranza: guarire dal male.
Qualche giorno dopo la scoperta della malattia, Daniele decide di parlare con un sacerdote: «Gli ho confidato ciò che sto vivendo. Ho parlato della mia fede, ma anche delle ansie e delle paure che mi accompagnano». Con l’interrogativo costante: «Perché proprio a me?». Il sacerdote lo ascolta in silenzio. Poi, con la serenità di chi testimonia la fede con la sua scelta di vita, gli risponde: «Siamo in due. Anch’io convivo con una simile malattia da alcuni anni. Nel mio caso è già in metastasi». E aggiunge: «Nonostante tutto non mi sento abbandonato da Dio. Anzi, trovo in Lui il mio rifugio». Il sacerdote e il malato: li unisce, in parte, uno stesso percorso. «Guarda sempre in alto – raccomanda il sacerdote a Daniele –. È Lui la nostra certezza, guida, luce. Colui che dà “ristoro”».
Il «prendersi cura»
La storia di Daniele è una delle tante che si vivono ogni giorno nelle case o istituti di cura, negli ospedali. Il sacerdote si presenta con le parole della fede, con l’umanità di chi si fa compagno di viaggio nella malattia.«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28.): è il tema della XXVIII Giornata mondiale del malato che si celebra l’11 febbraio, festa della Madonna di Lourdes.
«Gesù Cristo, a chi vive l’angoscia per la propria situazione di fragilità, dolore e debolezza, non impone leggi, ma offre la sua misericordia, cioè la sua persona ristoratrice», scrive papa Francesco nel suo messaggio. «Egli stesso si è fatto debole sperimentando l’umana sofferenza e ricevendo a sua volta ristoro dal Padre». A volte, però, sottolinea il Papa, si avverte una carenza di umanità e risulta perciò necessario personalizzare l’approccio al malato, aggiungendo al «curare» il «prendersi cura», per una guarigione umana integrale. «La Chiesa – aggiunge – vuole essere sempre più e meglio la “locanda” del Buon Samaritano che è Cristo, cioè la casa dove potete trovare la sua grazia che si esprime nella familiarità, nell’accoglienza, nel sollievo».
Don Mario Cagna, 54 anni, è uno dei tanti sacerdoti – circa un migliaio in Italia appartenenti a diocesi o a istituti religiosi – incaricati della Pastorale della salute. Svolgono la loro attività in ospedali, nosocomi, rsa, hospice per malati terminali. Da quattordici anni è cappellano del Polo ospedaliero delle emergenze di Lavagna, diocesi di Chiavari (provincia di Genova). I suoi «parrocchiani» sono le centinaia di malati che incontra ogni giorno.
Molti hanno imparato a fidarsi di lui un po’ alla volta; altri lo guardano come una persona estranea, altri ancora gli buttano addosso la loro rabbia. Come quel giorno in cui, avvicinandosi a una signora nel reparto di rianimazione dove da poco era stata ricoverata la madre in gravi condizioni, ha ricevuto un netto rifiuto alla richiesta di dire insieme una preghiera. «Il giorno dopo sono tornato – spiega – e la signora era ancora lì. È stata lei a chiedermi di pregare: “Ho pensato – mi ha detto – che a mia madre farebbe piacere”».
Oggi la Pastorale della salute va oltre gli ospedali. «I tempi di ricovero si sono accorciati e i luoghi dove si incontrano disagio e sofferenza sono spesso le stesse parrocchie – spiega don Marco Galante, 45 anni, cappellano agli Ospedali Riuniti di Padova Sud “Madre Teresa di Calcutta” –. Ci sono sempre più famiglie che assistono un malato, anziani soli e bisognosi di cure, disabili, persone con problemi di salute mentale». Un compito che coinvolge gli stessi parroci e anche molti laici, volontari. «Il cappellano ospedaliero – sottolinea il sacerdote – è la diretta espressione della comunità cristiana nel prendersi cura dei propri fratelli ammalati». Un prendersi cura che continua, poi, nelle singole comunità di appartenenza. «L’assistenza religiosa in ospedale – aggiunge – non è altro che il “ministero della vicinanza”». Don Marco lo svolge insieme con un altro confratello, una suora e una decina di volontari, tra questi, due coppie di sposi, tutti Ministri straordinari della Comunione: portano, a chi lo desidera, l’Eucaristia. A ciascuno consegnano un sorriso e una parola di conforto.
Incontrare ed entrare in dialogo con una persona che vive nella propria carne la sofferenza non è facile. Ognuno viene da un’esperienza di vita, fede, religione oggi più che mai diverse. Una sfida che la Chiesa non disattende e sulla quale è impegnata da tempo. Lo scorso 18 gennaio è partito ufficialmente a Verona, con un convegno tenuto da padre Luciano Sandrin, sacerdote, psicologo e teologo, intitolato: «Dal guaritore ferito al pastore resiliente», un corso annuale promosso dal Centro Camilliano di formazione, in collaborazione con la Facoltà teologica del Triveneto. Lo scopo: preparare operatori nella pastorale della salute: sacerdoti, diaconi, religiosi, laici impegnati nel servizio ai malati e nell’ambito della carità.
«Un ricovero e l’esperienza della sofferenza diventano spesso un “crocevia di vita” – confida don Marco –. Momenti difficili che a volte servono a rimettere in ordine “pezzi” della propria esistenza. La Chiesa si fa presente nel momento in cui le persone vogliono “ricucire” il proprio vissuto per riconciliarsi con la vita». Come quella volta che una signora gli ha confidato il peso delle proprie pene portate dentro di sé per quasi quarant’anni. Una confessione terminata con semplici parole: «Ora sono in pace».
Ascolto, silenzio, preghiera. Gesti di un impegno che da decenni si rinnova nei luoghi della sofferenza, laddove la Chiesa diventa «locanda» del Buon Samaritano. Anche se la presenza crescente di stranieri, di persone di altre culture e religioni sembra cambiare lo scenario. «L’amore non ha distintivi. Il principio rimane lo stesso – sottolinea don Marco –: il rispetto per l’uomo, immagine di Dio, non pone confini. Nostro compito è testimoniare il suo amore verso tutti. Indistintamente. Al di là del proprio credo».
«Una sera – racconta don Marco – sono stato chiamato in pronto soccorso per la morte improvvisa di un quarantenne, padre di famiglia». Dopo una crisi cardiaca, nonostante i tentativi di rianimazione, non ce l’aveva fatta. Quindi la disperazione di moglie, figlia, genitori. «Ho atteso in silenzio – confida –, poi una parola di conforto e il raccoglimento». Infine la domanda, inattesa, da parte della dottoressa che aveva fatto di tutto per tenere in vita quel giovane: «Don Marco, può spiegarmi perché io, che ho studiato tanto per fare questo mestiere, non sono riuscita a salvare quest’uomo e lei, con una semplice parola, “salvezza”, è riuscito a riportare un filo di luce in un momento così buio, a donare un po’ di serenità ai suoi cari?». Il sacerdote risponde al medico: «Il Signore è nostra speranza e salvezza. È Lui che dà senso alla nostra vita».