Musei d'impresa, collezionisti di bellezza
Detta così potrebbe far storcere il naso a molti, se non addirittura far dubitare della salute mentale di chi scrive, eppure anche lo pneumatico di un’auto ha una sua intrinseca bellezza. Vedere per credere il museo d’impresa della Fondazione Pirelli, uno scrigno di perle rare e preziose che potrebbe fare la gioia pure di molti ragazzini (e dei loro insegnanti, vista l’ampia proposta di esperienze educational). Perché la bellezza italiana si cela davvero dappertutto: è incisa negli occhi di chi progetta, crea e produce i nostri manufatti, che trasudano una perfezione di senso delle proporzioni e di stile che il mondo intero ci invidia.
Lo dimostrano i moltissimi musei d’impresa disseminati sul territorio nazionale. E che non sono certo una novità. In Italia, in particolare, sono stati attivati tra fine '800 e inizio '900, come si legge ne I musei d’impresa, di Fiorella Bulegato (Carocci), «anche finanziariamente, dal circuito delle Grandi esposizioni internazionali» quando, sul modello di esperienze straniere, soprattutto francesi e inglesi, nel Belpaese cominciano a comparire i primi musei. I primi musei d’impresa nazionali nascono nelle grandi città, Torino, Roma, Napoli e Milano, ma pian piano l’esperienza si allarga al punto tale che, sempre secondo il volume di Bulegato, e compiendo un salto di decenni da capogiro, attorno alla fine del 2010 ne rinveniamo circa seicento in tutta Italia, anche se con prevalenza al Nord (68 per cento) e al Centro (23 per cento) e con un piccolo, ma significativo, 9 per cento nel Sud e Isole. Marchi storici del made in Italy, come Barilla, Lavazza, Alessi, Ducati, Alfa Romeo, Strega (ma persino Poste italiane) hanno così dato vita ai loro musei, visitati ogni anno da migliaia di persone.
Ma che cos’è, al di là delle definizioni, un museo d’impresa? «È una raccolta di documentazione (foto, film, pubblicità, disegni tecnici, macchine, libretti di lavoro...) che serve ad attestare la dimensione tecnica ma anche umana del lavorare – risponde Antonio Calabrò, presidente dell’associazione Museimpresa, fondata nel 2002 e che riunisce, oggi, 94 musei d’impresa –. È, insomma, una sorta di giacimento di testimonianze diverse che danno l’idea di una lunga attitudine delle imprese italiane a fare quello che ha detto benissimo uno dei più grandi storici europei dell’economia, Carlo Maria Cipolla, il quale parlava di “italiani abituati, sin dal Medioevo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. E la bellezza di cui parla Cipolla è senza dubbio un tratto distintivo, un elemento della competitività delle imprese italiane. Bello è tutto quello che, dagli anni ’50 del secolo scorso in poi, abbiamo plasmato sotto l’insegna del design e che si contraddistingue per qualità, estetica e funzionalità. Tutto ciò che esce dal nostro Paese è “bello”, perché frutto della bellezza di cui siamo impregnati, e che viene dalla dimensione delle forme e delle proporzioni».
Nei musei d’impresa tutto questo si può toccare con mano, consapevoli che non si tratta soltanto di un dato dell’amarcord, ma di un punto dell’attualità su cui si fonda ancor oggi la nostra capacità competitiva sui mercati «e si fonderà – sottolinea il presidente –, finita la crisi, la nostra capacità di recuperare spazi sui mercati, italiani ed esteri, vista la vocazione internazionale delle nostre imprese».
I musei d’impresa sono tra loro diversissimi, sin dal primo impatto: si va da edifici progettati da archistar a vecchie fabbriche rimesse a nuovo. Ma diversi pure per tipologia di prodotto: dalla liquirizia alle auto, dalle moto all’arredo, dai liquori alle chiavi. Ma com’è possibile fare rete con una simile varietà di proposte? «Noi siamo convinti – insiste Calabrò – che la dimensione della relazione tra le imprese rafforzi il racconto, al di là della differenza. Quella italiana è, infatti, un’industria di filiere, di distretti industriali, di concentrazione territoriale delle imprese, in cui da sempre la metalmeccanica parla con l’arredo, le macchine di confezionamento con la farmaceutica. Un dialogo che si è instaurato anche con le imprese internazionali, con le quali abbiamo una relazione che è competitiva e collaborativa insieme. I nostri musei, dialogando tra loro, rinforzano la loro presenza sul territorio ma anche sulla scena culturale nazionale».
Eppure, a detta di molti, coniugare industria con cultura o bellezza è impossibile. «Perché noi pensiamo, nell’accezione comune, che cultura sia solo quella umanistica: scrittura, musica, teatro, arti visive – continua il presidente –. Ma le imprese ci ricordano, invece, che cultura è anche scienza e ricerca scientifica, è un grande dipinto di Raffaello e il premio Nobel per la chimica a Giulio Natta. Non siamo abituati, purtroppo, a emozionarci per la bellezza delle scienze. E invece in campo scientifico – e la grande letteratura lo conferma, basti pensare a La tavola periodica di Primo Levi – c’è una straordinaria bellezza che ci giunge dalla consapevolezza del passato e da uno sguardo rivolto al futuro. D’altra parte, tutta la civiltà dell’Umanesimo e del Rinascimento è civiltà scientifica. L’uomo dell’Umanesimo è un uomo integrale: Leonardo ne è l’esempio migliore. Le imprese sono i luoghi in cui i saperi umanistici e le conoscenze scientifiche stanno insieme, creando quella cultura politecnica che è il punto di forza della civiltà italiana. Leonardo Sinisgalli, il “poeta ingegnere”, la chiamava la “civiltà delle macchine”».
Le imprese, raccontandosi, generano valore, a livello economico, ma anche sociale e culturale. La storia delle imprese italiane, infatti, è fatta di radici e di ali, per utilizzare un’espressione cara al sociologo tedesco Ulrich Beck, e dimostra che si può innovare pur senza perdere di vista la tradizione. «Un museo dice molto bene tutto questo – conclude Calabrò – e fa passare nella coscienza comune del Paese la consapevolezza che fare impresa è un elemento di grande valenza sociale (perché dà un’idea positiva del cambiamento) e morale (perché impresa è responsabilità). E tutto ciò, nel momento di grave crisi che stiamo attraversando, è prezioso. I nostri musei danno la dimensione dell’importanza del fare e io credo che proprio nel fare stia il nostro futuro, oggi più che mai. La grande lezione che questa crisi ci sta offrendo è che la sostenibilità, ambientale e sociale, è centrale: fabbriche belle, in cui sia piacevole lavorare e che producano coesione sociale proprio perché strutture di comunità, di sfide culturali, sociali e tecnologiche raggiunte. Dobbiamo crescere tenendo conto del Pil, ma anche del Bes (l’indice di benessere equo e sostenibile coniato dall’Istat). Per questo tra i firmatari del Manifesto di Assisi ci sono molti imprenditori italiani, accanto ai frati e a organizzazioni come Symbola, nata per dare forza a imprese e comunità che puntano su sostenibilità, innovazione e bellezza». Perché alla fine si torna sempre lì: è la bellezza che salverà il mondo. Anche oggi.
Info: www.museimpresa.com/museiarchivi/
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