Stato sociale casa nostra
La giovane mamma ha una bimba di pochi mesi e a breve dovrà tornare al lavoro. Cominciano per lei i problemi di armonizzazione tra la vita lavorativa e la famiglia, che purtroppo ancora molte donne risolvono lasciando il posto, visto che lo stipendio non coprirebbe i costi della babysitter. Lei invece bussa alle porte della Città Essenziale, un consorzio di cooperative (vedi riquadro a pag. 37) che, dopo aver valutato la sua situazione, le propone un piccolo asilo nido. La donna potrà scegliere l’orario più adatto alle sue esigenze e i costi saranno parametrati sul tempo e sulla condizione economica della famiglia.
Se la bimba si ammalerà, una delle operatrici che già la seguono andrà a casa per gestire l’emergenza. Non solo, l’asilo nido offre alla madre la possibilità di trovare la spesa fatta, al momento di andare a prendere la piccola. Sembra d’essere a Copenaghen e invece siamo a Matera, in Basilicata, nel cuore del profondo Sud. E quello che abbiamo appena descritto è un nuovo modello, si dice in gergo, «di welfare», cioè un sistema di servizi che mette in rete tutte le risorse disponibili nel territorio, da quelle pubbliche a quelle private, per rispondere alle necessità e alle difficoltà delle persone e delle famiglie e aumentare il benessere sociale.
L’Italia è un po’ così, ogni tanto ci stupisce esponendo qualche gioiello solitario, qualche territorio socialmente più avanzato, qualche sperimentazione pubblica eccezionale, accanto a vaste lande dove la protezione sociale è al lumicino e le persone in difficoltà – famiglie povere, anziani non autosufficienti, giovani disoccupati – sono appese in molti casi alla generosità familiare o a quella delle Caritas e del volontariato. «Colpa della crisi» sentenziano alcuni, esponendo il luogo comune più tipico, secondo il quale lo Stato sociale non possiamo proprio più permettercelo: è un lusso da Paese nordico. E poi il nostro sistema è corrotto, sprecone, inefficiente, insomma una zavorra. Così capita che ci si rassegna, non si combatte neppure più contro i tagli alle spese sociali, si arriva a perdere la coscienza che lo Stato sociale è un bene da difendere, una grande conquista, la barriera protettiva a una sfera importante dei nostri diritti, i cosiddetti «diritti sociali», come li definiva il sociologo Thomas Marshall negli anni ’50, distinguendoli da quelli civili e politici. Quei diritti cioè che, sanciti dalla Costituzione, permettono condizioni di vita dignitose per tutti. Insomma, intorno al welfare c’è poca consapevolezza e ci sono tanti pregiudizi. Proviamo a sfatarli uno a uno, con l’aiuto di alcuni dei più importanti esperti del settore in Italia. Che cos’è il welfare? A prima vista questa parola inglese sembra un termine da addetti ai lavori. Letteralmente vuol dire «benessere». Si è iniziato a usarla nel dopoguerra, in ambiente anglosassone, per designare quel tipo di Stato che sottrae alcuni bisogni essenziali all’area del mercato. «Ciò significa – spiega la sociologa Chiara Saraceno – che indipendentemente dalle mie risorse personali io ho accesso ad alcuni diritti fondamentali, per esempio a essere curato, all’istruzione fino a un certo grado, ad andare in pensione a una certa età, ad avere una tutela in caso di maternità o una protezione in caso di disoccupazione. Questi diritti cambiano nel tempo e non sono tutelati nello stesso modo da tutti i Paesi avanzati». Perché molti italiani considerano il welfare una spesa improduttiva? «Intanto – risponde Saraceno – perché si crede erroneamente che sia qualcosa destinato solo ai poveri e ai casi sociali. Quando invece è una rete di sicurezza per tutti». Poi c’è la tendenza ad avere una concezione privata del benessere, come se esso dipendesse solo da fattori personali: una buona famiglia, parenti solidali, un buon lavoro, ecc. «Credo – continua Saraceno – che per molti italiani il welfare improduttivo siano i servizi ai bambini, agli anziani o alle famiglie in difficoltà, pochi sono coscienti che welfare sono anche le pensioni». Mancano, insomma, sia la visione d’insieme che la consapevolezza che «più si tagliano i servizi sociali, più il peso delle persone vulnerabili ricadrà sulle famiglie». Una miopia ancora più pericolosa in un’epoca in cui il lavoro non è più garantito, il rischio povertà è più alto e la popolazione è sempre più vecchia e bisognosa di cure. La convinzione comune è che alleggerire il welfare ci aiuterebbe a uscire dalla crisi. «Innanzitutto va chiarito che la crisi non è stata provocata dal welfare – sbotta Saraceno con una punta di stizza –. Le bolle speculative, la mancata competitività delle imprese, la globalizzazione non hanno nulla a che fare con esso. Anzi, ci sono Stati forti che hanno welfare forti». Questa equazione «più welfare più crisi», secondo la sociologa, non è solo italiana ma si è ormai imposta a livello europeo: «Le varie “troike” e “austerity” hanno individuato nel welfare l’ambito in cui effettuare i tagli. Quindi proprio nel momento in cui la vulnerabilità delle persone aumentava, si è detto che bisognava ridurlo drasticamente. L’irrigidimento è stato più forte per quei Paesi che avevano un sistema più debole, cioè i Paesi mediterranei, gli stessi a cui poco tempo prima si chiedeva di migliorare e aggiornare il proprio welfare. Un paradosso!».
Si è comunque fuori strada se si pensa che i diritti non abbiano una contropartita, chiarisce Maurizio Ferrera: «Il diritto altro non è che un potere garantito alla persona da uno Stato che se ne prende la responsabilità e lo tutela – ha spiegato durante una conferenza al Festival dell’economia di Trento –. Ogni diritto però comporta un dovere. Per esempio, il diritto di uno ad andare in pensione comporta il dovere degli altri a partecipare al finanziamento di quella pensione». L’altro caposaldo dei diritti sociali è che hanno alla base una redistribuzione: «Sono organizzati – continua Ferrera – sotto forma di assicurazione sociale obbligatoria, per cui alcune persone incorrono nel rischio e ricevono più di quanto hanno dato, mentre altre pagano più di quello che riceveranno». Come a dire che i diritti sociali non sono gratuiti, né scontati, il problema semmai è capire se il modo di tutelarli è equo e adeguato ai tempi. È vero che non ci sono più soldi per il welfare e che l’Italia è uno dei Paesi che spende di più? Nonostante la crisi abbia allargato i bisogni e la «coperta sociale» sia più corta, «affermare che non ci sono soldi è sbagliato. Il maggior problema del welfare italiano è il modo in cui spendiamo le risorse disponibili» chiarisce Tiziano Vecchiato.
In effetti, la spesa sociale dell’Italia (circa 30 per cento del Pil) non si discosta di molto dalla media europea (circa il 28 per cento nel 2012). Ma se si va ad analizzare in dettaglio si vede che il 60-70 per cento delle risorse è speso in pensioni (50 per cento la media Ue), un’altra buona percentuale in sanità, e la minima parte in servizi alle persone e alle famiglie. Che significa questo in concreto? Che c’è una fetta di persone ipergarantita – affermano concordi gli esperti – che è la fascia dei più anziani, e un’altra fetta, costituita per lo più da giovani, donne e bambini, con poche o nessuna garanzia. Questo squilibrio ormai sotto gli occhi di tutti è un altro colpo di coda contro il welfare, a cui si aggiungono i vari scandali di sperpero della cosa pubblica. Ma sappiamo davvero come siamo arrivati a questo punto? «Il nostro sistema di welfare, come d’altronde quello dei sistemi mediterranei – spiega Saraceno – è nato su base categoriale e legato al mondo del lavoro. Ogni categoria di lavoratori aveva il suo sistema di protezione. Ciò ha però portato i politici a individuare a scopo clientelare la categoria da proteggere. E così oggi si arriva all’assurdo che se sei un lavoratore dipendente e sei capiente (cioè puoi pagare le tasse) hai diritto agli assegni familiari quando ti nasce un figlio, al contrario se sei un disoccupato non hai diritto a nulla. Altro esempio: se fai parte di una categoria forte come i ciechi hai diritto a una congrua protezione, ma se sei un paraplegico no». Un sistema così agevola la corruzione e i furbi: «Se io non appartengo a nessuna categoria – continua la sociologa – e non ho diritto a nulla farò “carte false” per rientrare in una categoria protetta». C’è bisogno di ricalibrare il sistema, renderlo più equo ed efficace, più adatto ai nuovi bisogni. Cosa che in concreto significa spostare risorse e introdurre nuove regole. Ma come la mettiamo con i diritti acquisiti? «Un diritto è acquisito e va salvaguardato finché c’è un bisogno che lo giustifica» spiega Vecchiato, altrimenti è assistenzialismo passivo e inutile. Nell’ultimo rapporto della Fondazione Zancan è stato evidenziato che circa un miliardo di euro di spesa per prestazioni assistenziali (cioè pensioni sociali e integrazioni al minino delle pensioni) è destinato a pensionati di famiglie benestanti. «Non sarebbe più giusto assegnare queste risorse ai pensionati poveri o, meglio ancora, ai bambini poveri?». Osservazione non di poco conto, visto che i piccoli in povertà assoluta sono oggi 1 milione e 400 mila (2013), mentre erano la metà nel 2009. Saraceno conferma che quello dei diritti acquisiti è un discorso delicato: «In molti casi c’è da chiedersi se siano diritti o privilegi». Ferrera rincara la dose: «Ancora oggi ci sono 240 mila pensioni in pagamento a beneficiari che l’hanno avuta prima dei 45 anni d’età. Fino alla riforma Dini (1995) le donne andavano in pensione a 55 anni e gli uomini a 60, ma la media reale era 53 anni anche per gli uomini, grazie ai pensionamenti di anzianità». Oggi la situazione dei figli è lontana anni luce da quella dei padri, con l’aggravante di un mercato del lavoro sempre più instabile e del rischio povertà sempre più elevato. Il problema dunque non è il welfare state e non sono neppure i soldi. Anzi, mai come oggi c’è bisogno di Stato sociale. Come invertire la rotta, riorganizzare il sistema, renderlo più giusto ed efficiente? L’argomento è di quelli che scottano per il mondo della politica, dove è più facile dare un contentino economico a pioggia, mettere toppe e qualche rinforzo, più che riformare un intero sistema e scontentare qualcuno. Ma le ricette in realtà già ci sono.«Cambiare mentalità, spostarsi da un sistema categoriale a uno universale – afferma Saraceno – è una delle prime svolte». In parole più semplici, significa prevedere diritti uguali per tutti a parità di condizione e difficoltà, a prescindere dalla categoria di appartenenza, tenendo conto dei nuovi rischi legati ai cambiamenti sociali ed economici.
Fondamentale, interviene Vecchiato, è anche cambiare il modo di spendere le risorse disponibili: «L’Italia ricorre a troppi “trasferimenti monetari” e troppo pochi “servizi” alle persone e alle famiglie». Ciò significa che è più facile, perché politicamente redditizio, ricevere una piccola somma a fronte di un problema, piuttosto che aver accesso a servizi professionali come assistenza ad anziani, a disabili e a bambini, cosa che quella piccola somma mai potrebbe garantire. «I trasferimenti non riducono in modo significativo la povertà – continua l’esperto –, mentre è ormai dimostrato che i servizi danno un aiuto concreto e professionale, rispondono meglio ai bisogni e creano occupazione».
Insomma, il segreto è passare dal welfare inteso come costo al welfare inteso come investimento sociale, più efficace, più equo, più solidale. Un welfare che non sia più la cenerentola della spesa statale, ma un volano di sviluppo economico e sociale.
MATERA
Il Sud che non ti aspetti
È la Città che non ti aspetti. Perché «essenziale», come si definisce. Perché ha imparato ad autofinanziarsi reinvestendo gli utili in servizi. Perché ci troviamo in un Sud erroneamente poco conosciuto. Siamo a Matera, designata Capitale della cultura per il 2019, vien da dire forse non a caso.
Nasce qui, tra i «Sassi» del capoluogo lucano, una delle realtà più innovative del welfare generativo. Da 15 anni il Consorzio «La Città Essenziale» propone una forma inedita di impresa: cooperative in rete per progettare e produrre servizi. Senza sostituirsi al pubblico, ma interagendo con le Istituzioni. Una rete fitta che, da poco, ha iniziato a collaborare con alcuni consorzi della vicina Puglia. Ma la spinta innovativa non finisce qui: il Consorzio trova pure il modo per autofinanziarsi, impresa titanica di questi tempi.
«Siamo partiti nel 2000 – spiega il presidente Giuseppe Bruno –. All’epoca le cooperative erano 4, ora sono 32. Il capitale sociale di 10 mila euro è oggi di quasi 100 mila. Il patrimonio netto da 10 mila euro è arrivato agli attuali 272 mila. Quindici anni fa il capitale umano della rete consortile era di 4 persone, oggi ne abbiamo circa 570, per oltre il 60 per cento donne. Oltre 90 i giovani inseriti nel servizio civile volontario; più del 70 per cento i giovani assunti a tempo indeterminato; oltre 60 le persone svantaggiate inserite nel lavoro. Gestiamo servizi socio-assistenziali nelle aree anziani, salute mentale, servizi alla disabilità, sportelli anti-violenza, ma anche ludoteche, asili nido, centri diurni, scuole primarie paritarie, assistenza domiciliare educativa, animazione territoriale, centri estivi».
L’autofinanziamento rappresenta la nuova frontiera e la sfida più ambiziosa, conclude Bruno. «Un esempio concreto? Abbiamo avviato una serie di attività in alcuni segmenti produttivi. Tra queste un marchio enogastronomico che prevede la distribuzione commerciale, sia online che in un punto vendita realizzato tra i Sassi, dei nostri prodotti di eccellenza. Tutto l’utile che ne deriva viene destinato a servizi di assistenza sociale. Realizziamo 20 euro di utile dalla vendita di prodotti enogastronomici? Bene, quei 20 euro vengono reinvestiti subito in un’ora di assistenza domiciliare per la quale, sia chiaro, il Consorzio non si muove in maniera autonoma, ma continua a interagire con le Istituzioni, a cominciare dai Servizi sociali».
WELFARE GENERATIVOTutti in campo
Rigenerare le risorse senza consumarle. Anzi, facendole rendere grazie alla responsabilizzazione che deriva da un modo nuovo di intendere diritti e doveri sociali. È questo il cuore del «welfare generativo», una declinazione del welfare che non si limita a raccogliere e redistribuire le risorse, ma fa di più. Un di più che si coniuga a livello micro nell’incontro con la persona e, via via, promuove corresponsabilità buone, locali, tra prossimi, siano essi istituzioni, forze presenti sul territorio o famiglie.
A lanciare la proposta la Fondazione Emanuela Zancan. Da anni promuove iniziative, tavoli di lavoro, incontri e proposte sul tema. Come quella di riconfigurare parte dei 6,5 miliardi di assegni familiari per creare 80 mila posti di lavoro. La riconversione in un investimento per la prima infanzia non toglie il diritto agli assegni, ma propone di trasformarlo in capitale sociale a vantaggio proprio e di tutti. Con un doppio ritorno: accesso facilitato per i propri figli e corsia preferenziale per le madri interessate a lavorare nei servizi 0-3. Proposta provocatoria che ha incassato, giusto un anno fa, il via libera della Commissione bicamerale infanzia.
«Il welfare non è una prerogativa dello Stato – sottolinea Tiziano Vecchiato, il direttore –. Tutti i soggetti sociali, a prescindere dalla loro natura giuridica pubblica o privata, dovrebbero concorrere a una società più inclusiva e solidale. Il pubblico deve garantire compiti di regìa e coordinamento del sistema e delle capacità. Il “welfare generativo” chiede a tutti, congiuntamente, la realizzazione dell’incontro tra “diritti” e “doveri” per il bene comune». Una strada obbligata, quest’ultima, se si vuole evitare la lenta e inesorabile recessione di welfare e umanità. «I bisogni continueranno a crescere. Le risorse economiche non potranno reggere il passo. È urgente passare da un welfare che raccoglie e redistribuisce risorse con una logica degenerativa a un sistema che valorizzi le capacità di tutti, anche degli aiutati, per rigenerarle – prosegue Vecchiato –. Ad esempio, quanto potrebbero contribuire i percettori di ammortizzatori sociali dopo aver goduto del diritto di ricevere erogazioni monetarie? Di sicuro, ci sarebbe la possibilità di destinare tempo e capacità al bene di tutti, valorizzando le proprie competenze, mettendo a bene comune quella che può sembrare una condizione di bisogno e di esclusione. I benefici per la collettività sarebbero grandi: vedremmo crescere il sistema di fiducia necessario per affrontare la crisi».
Sempre più numerose a livello locale le esperienze apripista di welfare generativo, spiega Devis Geron della Fondazione Zancan. A Treviso il Comune ha introdotto buone pratiche di welfare come alternativa ai sistemi basati sull’assistenzialismo, affiancati in questo dalla Fondazione. Da luglio 2015 è iniziata la sperimentazione attraverso contributi economici e agevolazioni tariffarie a persone e famiglie aiutate dal Comune. Gli «aiutati», a loro volta, daranno in cambio un servizio in ambiti quali la cura dell’ambiente o i servizi di prossimità. A Cremona la Provincia sperimenterà, a breve, i «Patti generativi per l’autonomia», rivolti a persone inoccupate e disoccupate, con particolare attenzione alla popolazione giovane (18-39 anni) in carico ai centri per l’impiego. Un altro esempio è quello che si sta effettuando negli uffici giudiziari della Lombardia. Lavoratori in cassa integrazione in deroga e straordinaria, in mobilità ordinaria e in deroga, sono coinvolti in esperienze lavorative negli uffici giudiziari. L’obiettivo è duplice: favorire lo sviluppo di nuove competenze professionali e, al tempo stesso, permettere agli uffici giudiziari di fronteggiare la carenza di personale in ambito amministrativo.
Il problema, per ora, è che molte di queste iniziative sono isolate e coraggiose. Perché non rimangano tali è necessario portarle a sistema con una regìa pubblica complessiva.
VENETOFamiglie, cuore di generatività
Non occorre andare chissà dove per scovare la generatività. L’incubatore numero uno è la famiglia. Ne è convinto, da sempre, Pasquale Borsellino, siciliano di origine e veneto di adozione, psicologo, psicoterapeuta, direttore della Struttura complessa Unità operativa materno-infantile età evolutiva e famiglia dell’Ulss 8 del Veneto. È sua l’idea di «Famiglie in rete», progetto che nasce dal concetto di famiglia come luogo in cui promuovere il benessere proprio e della comunità. «La buona pratica è quella di far nascere in ogni Comune un gruppo di famiglie solidali che si aiutano a vicenda e accolgono altre famiglie in difficoltà – spiega Borsellino –. Le famiglie appartengono tutte allo stesso territorio. Quelle accoglienti possono offrire il loro sostegno in vari modi: seguendo un bambino in casa propria per qualche ora la settimana; accompagnandolo ad attività extra scolastiche; offrendo appoggio o recandosi nella famiglia per dare supporto soprattutto in momenti particolari come malattie, separazioni, immigrazione, lutti».
Il progetto è diventato un laboratorio regionale di nuove prassi, di cui l’Ulss 8 è capofila e al quale hanno aderito ben 15 Ulss. Borsellino ha alle spalle 25 anni di attività tra consultori familiari e servizi di lotta alle dipendenze. Un contatto quotidiano con le famiglie, in particolare con la grande solitudine dei bambini e, prima ancora, dei genitori. Eppure, nonostante le sue fragilità, la famiglia rimane l’unica àncora di salvezza, l’unica strada attraverso la quale sprigionare buone pratiche, «perché è il luogo degli affetti, delle relazioni, della crescita e dell’integrazione del maschile e del femminile, nonché il luogo in cui si esprimono responsabilità riconosciute e condivise e in cui le generazioni possono stabilire rapporti di reciprocità – prosegue Borsellino –. La famiglia può essere un sistema auto generativo, ovvero capace di mettere a disposizione la propria energia e le proprie competenze per la crescita dei figli, per la loro educazione e per la crescita della coppia genitoriale (generatività familiare), per la cura e l’investimento nei legami e nei rapporti sociali (generatività sociale) e infine per la comunità all’interno della quale è inserita (generatività comunitaria)».