Eroine col velo
Polonia, 1945. La verginità di alcune suore di clausura viene violata dai soldati russi. Nel film Agnus Dei (titolo francese originale: Le innocenti) non assistiamo allo stupro, ma ne scopriamo le inattese conseguenze attraverso gli occhi sbigottiti di una dottoressa francese, Mathilde (nome storico Madeleine Pauliac 1912-1946), di stanza alla Croce Rossa.
Sette monache sono rimaste incinte! Il film non riprende la spinosa questione della liceità della contraccezione preventiva, una questione discussa nei più recenti conflitti in Bosnia-Erzegovina. Le «innocenti» del film non ebbero del resto alcun modo di prepararsi: un’ondata di brutale, criminale maschilismo etnico le travolse. Ma nella pellicola nessuna di loro pensa all’aborto per liberarsi di una gravidanza crudelmente subìta. Il dilemma morale riguarda il modo in cui vivere la gravidanza, il parto e il puerperio, senza trasgredire le rigide regole di segretezza, nascondimento, intangibilità di quei corpi offerti solo a Dio.
Che fare? Ignorare l’evento? Nascondere il gonfiore dell’addome? Minimizzare i sintomi? Attendere fatalisticamente la nascita, in nome della provvidenza? Che cosa significhi essere suora, madre o medico, non lo si sa in dettaglio, a priori e una volta per tutte, ponendosi fuori dalla storia, congelando i sentimenti e chiudendo gli occhi di fronte agli accadimenti cattivi o agli incontri salvifici, che l’esistenza dischiude. Ogni essere vivente, che non si trasformi nella crescita, è malato, debole, sclerotico. Il film documenta la molteplicità delle potenziali trame biografiche, che custodiamo dentro di noi, come in un giardino segreto, i cui fiori sono perennemente da scoprire.
Ci commuovono le metamorfosi, cui assistiamo in Agnus Dei. Come per miracolo una vergine-promessa allatta al seno un infante. Alcune donne sposate, pur trovandosi in condizioni di povertà e fame, accettarono di adottare pargoli privi di genitori. La dottoressa agnostica e politicamente impegnata nella resistenza francese, scavalcando gli ordini ricevuti e superando barriere ideologiche, scopre la somiglianza della propria vocazione rispetto a quella claustrale (sente il fascino della preghiera e in una sequenza corre lei stessa il rischio di venire abusata ad un posto di blocco), riuscendo a conquistare la stima delle suore. Queste ultime la riconoscono e l’abbracciano felici come un’amica, a cui si può persino confidare l’incredulità per l’apparente latitanza di Dio, il quotidiano piacere della preghiera, l’irresistibile stupore per la nascita.
La macchina da presa stringe sui volti e li accosta fra loro, alternando gli antichi canti gregoriani agli appassionati balli dell’esercito, ai lamenti sommessi dei feriti e alle urla del travaglio. La fotografia è una lotta contro il freddo, è la ricerca di una luce delicata e suadente sotto un buio incombente. La colonna di suoni e rumori si inscrive nella muta bellezza della brughiera e dei boschi innevati, bianchi e neri come l’abito delle religiose. Anche le monache, caste nonostante tutto, sono la terra, le zolle, il grembo, da cui proviene ogni nato di donna.
Ci sono due Chiese nel film. La badessa è ossessivamente preoccupata del decoro, delle leggi monastiche, della pudicizia. La seconda Chiesa è fotografata, nel finale della pellicola, come una parabola del Regno: una festosa comunità di suore, che tengono sulle ginocchia bambini chiassosi e vitali, e che godono del banchetto cui tutti, laici e religiosi, sono invitati. Il cinema fa nascere pensieri, ti espone alle doglie di emozioni impreviste, ti tocca, urta, ferisce, sutura, ricamando abiti mentali nuovi, scambiando le tue vesti con quelle dei personaggi. E ti porta di fronte all’enigma: andare a vedere o fuggire di paura; promettere fedeltà alla vita o seppellirti dentro la buia inerzia di una sala di proiezione.