Ex Jugoslavia, per non dimenticare
Il 31 dicembre 2017, il Tribunale internazionale per i crimini commessi nelle guerre in ex Jugoslavia (ICTY) con sede all’Aja ha chiuso i battenti, dopo ventiquattro anni di lavoro dal suo insediamento (1993). È stato il primo tribunale ad hoc, fondato da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, a occuparsi di crimini commessi durante un conflitto dopo la Seconda guerra mondiale. Comunque si giudichi il suo operato, ha rappresentato un evento storico. Il Tribunale ha avuto giurisdizione sui responsabili di reati gravissimi (genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità) commessi dal 1991 al 2001 nei quattro differenti conflitti che hanno segnato la fine della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (1945-1992): Croazia, Bosnia, Kosovo, Macedonia. Per la cattura degli imputati, il Tribunale si è appoggiato alle forze dei Paesi coinvolti e a quelle della NATO, circostanza che lo ha esposto a critiche di parzialità. Su centosessantuno atti di accusa formalizzati, i giudici hanno ascoltato più di 4.650 testimoni ed emesso centotré condanne, di cui settantotto a lunghe pene detentive e cinque ergastoli.
Diciannove imputati sono stati assolti. Tra i condannati, il 70 per cento è costituito da serbi, il 20 per cento da croati e il 10 per cento da Musulmani (la costituzione di Bosnia-Erzegovina identifica in questo modo i tre gruppi definiti come «popoli costitutivi» della nazione. Nel testo, «musulmani» è scritto con la «m» maiuscola per significare che l’appartenenza a un popolo non implica necessariamente la pratica della fede. Attualmente la parola usata per definire questo popolo è «bosgnacchi»). Anche i tribunali delle nazioni coinvolte hanno giudicato ed emesso condanne per seicentoquarantasei imputati. L’archivio del Tribunale è composto da 2,5 milioni di pagine di verbali e sentenze, consultabili anche online. Le indagini svolte hanno cercato di individuare e punire le responsabilità personali per evitare colpevolizzazioni collettive (come sottolineava Antonio Cassese, il giurista italiano primo presidente del Tribunale). Ricostruire le responsabilità politiche della guerra è compito che spetta agli storici, non ai giudici.
Tante condanne sono nulla di fronte ai numeri della tragedia. Al netto della propaganda, le cifre stimate sono impressionanti. In una guerra «europea», sono state uccise 130 mila persone. Europea, non solo in senso storico, ma perché emotivamente tutti potevamo riconoscerci nelle vite e nella cultura delle persone coinvolte. Nelle vittime, come nei carnefici. La nazione che ha sofferto di più è stata la Bosnia-Erzegovina con circa 100 mila morti. Il gruppo nazionale più colpito, quello dei bosgnacchi con 64 mila morti. I profughi in fuga all’estero o nel loro Paese, perché cacciati dalle proprie case, sono stati 4 milioni e 400 mila. Solo in Bosnia 2 milioni e 200 mila, cioè più della metà dell’intera popolazione.
Critiche e meriti
Le critiche espresse sul lavoro del Tribunale non sono tutte basate su questioni realmente opinabili, come l’uniformità di interpretazione del criterio della responsabilità gerarchica nell’esecuzione di un crimine. Un caso clamoroso d’interpretazione difforme è stato quello dei generali croati Gotovina e Markac, prima condannati a ventiquattro e diciotto anni di reclusione e poi assolti in appello. Ogni sentenza discutibile contribuisce a provocare una reazione a difesa dei «propri criminali» tra gli ex belligeranti. Reazione riassumibile nello slogan: «Criminali sono gli altri, i nostri sono “eroi”». Molte dichiarazioni sono tragicomiche. Commentando la condanna del generale Mladic´ all’ergastolo per genocidio (più di 8 mila bosgnacchi uccisi solo a Srebrenica), Mladen Grujcic´, neo-sindaco di Srebrenica, ha detto: «La sentenza rafforza il suo mito tra la nazione serba, che gli è grata per averla salvata dalla persecuzione e dallo sterminio».
La difesa dei nuovi interessi di partenariato economico unisce al coro delle critiche strumentali anche autorevoli commentatori europei, che attaccano le sentenze contro gli Stati-amici e plaudono quelle contro gli altri. Certo è che l’idea di costruire una giurisdizione internazionale, che ovunque contrasti azioni criminali contrarie a ogni cultura e religione, è un obiettivo lontano dall’essere condiviso. Soprattutto oggi, quando è l’istituzione stessa delle Nazioni Unite a essere in crisi. Nonostante alcune sentenze discutibili, se il Tribunale non fosse esistito i criminali impuniti sarebbero di più e il deterrente della severa condanna verrebbe meno, cosa che renderebbe le persone disarmate più vulnerabili.
Come giornalista, ho incontrato diversi condannati dal Tribunale nel tempo dell’esercizio dei loro crimini. Ho sempre avuto la sensazione di trovarmi di fronte a persone meno che mediocri. Mi riferisco ai leader acclamati, non ai manovali del crimine che fotografavo con armi e muscoli in evidenza.
L'articolo completo nel numero di marzo del «Messaggero di sant'Antonio» e nella versione digitale della rivista.