Gerusalemme d’Africa

Lalibela, la città sacra d’Etiopia, è un incastro spettacolare di undici basiliche rupestri, scavate nel tufo. Un miracolo spirituale e architettonico del medioevo africano, icona di un cristianesimo fuori dal tempo. A un passo dalla modernità.
17 Aprile 2015

Le nenie e i canti da trance invadono l’alba di Lalibela. Città santa dell’Etiopia ortodossa. Città lontana, nel cuore del più grande altopiano d’Africa. Alla domenica, preti e monaci, cantori e diaconi, affollano le basiliche scavate nel tufo. È una geografia impressionante di chiese e cappelle, una sacralità rupestre che solo gli angeli potevano immaginare e costruire. Fa freddo ai 2.600 metri di Lalibela. La voce dei preti ha risvegliato i fedeli e una processione di uomini e donne avvolte in shamma bianchi si è messa in cammino verso le chiese. Gli uomini hanno volti scavati e intirizziti. Le donne, con addosso lunghe vesti raggrinzite, esitano davanti all’ingresso delle chiese. Questa è una bibbia nera, un cristianesimo antico, privo di ogni tempo.

Un prete predica all’aperto nello spiazzo di Medhane Alem, «il Salvatore del Mondo», la chiesa più grande, cattedrale rupestre, sorretta da un incredibile colonnato. Tra le navate scavate nella roccia, rullano, con ritmo salmodiante, i kebarò, i grandi tamburi del cristianesimo etiopico. I diaconi entrano con brocche colme di acqua benedetta. La gente si affolla. Cento mani si protendono. I fedeli bevono da minuscoli bicchierini di metallo.

La fede di Lalibela e dei cristiani d’Etiopia è fisica. Si beve l’acqua, si viene santificati con segni di cenere sulla fronte, si mangia terra sacra. Nella chiesa di Golgotha, uno dei luoghi più santi di Lalibela, kes Betay, il prete Betay, con un cucchiaino, versa in un bicchiere d’acqua terra color cannella. Kes Betay, in un inglese inventato, mi spiega che è «medicina». Aggiunge una sola parola: «Aiuta». La terra è stata raccolta nella misteriosa cappella dove è sepolto re Lalibela. E la sua tomba è il simbolo del sarcofago di Cristo. La terra attorno a questa sepoltura leggendaria è sacra, ha sfiorato il divino. Bisogna farla diventare parte del nostro corpo. Bisogna mangiarla.

La cenere è quanto rimane dell’incenso. Le mani di Habtemarian, prete custode della chiesa Yemrahana Krestos, il primo re-santo, il primo grande costruttore di basiliche in questa regione d’Etiopia, disegnano una croce sulla fronte del mio amico Nati. Ragazzi e ragazze aspettano il loro turno. Ne usciranno «mascherati», segnati sul viso dal sacro. Un diacono distribuisce i lunghi bastoni liturgici, i makuamià, ai preti. Un altro simbolo: con uno di questi legni, Mosè aprì le acque del mar Rosso. Adesso servono per le danze ipnotiche delle cerimonie religiose. I preti cominciano un ballo immobile. Fanno oscillare i bastoni, alzano le gambe. I corpi dei fedeli si stringono uno all’altro. Lalibela sorprende la tua fede. Se ti lasci afferrare dalla sua spiritualità, corri dei rischi. Non sei più un turista. Ma non sai più chi sei. Lalibela, oggi, è anche città di turismo. Attorno alle chiese sono sorti grandi alberghi. Ci sono ben 146 guide ufficiali. Quando venni qui la prima volta, vent’anni fa, mi accompagnavano in giro solo ragazzi magri e senza scarpe. Lalibela è un grande business. La chiesa d’Etiopia possiede hotel e ristoranti. Visitare il complesso sacro, per uno straniero, per un fernji, costa 50 dollari.

Ma poi ti ritrovi, da solo, sulla trincea che protegge Bete Giyorgis, la solitaria chiesa di San Giorgio, la più bella, o trovi un nascondiglio nella penombra di Golgotha. E sei certo che Lalibela sia un miracolo.

Questa città santa è stata creata dagli Zaguè, la più misteriosa delle dinastie etiopiche. Regnarono appena poco più di un secolo. Tra il 1137 e il 1270. L’antico regno di Aksum era oramai scomparso, la genealogia regale dei salomonidi, eredi di Menelik I, il figlio di re Salomone e della regina di Saba, si era interrotta. Gli Zaguè ricostruirono l’impero d’Etiopia nella solitudine inaccessibile delle montagne del Lasta, ma non coniarono moneta, non lasciarono cronache, nessun viaggiatore straniero giunse mai alla loro corte. E i salomonidi – dinastia imperiale destinata a durare fino al negus Hailè Selassié, cioè fino a quarant’anni fa –, una volta riconquistato il potere, li bollarono come usurpatori. Eppure questa gente, questi re, hanno eretto le chiese più incredibili e folli, miracolo di ingegneria rupestre, della storia cristiana dell’Africa.

L’Etiopia è stato il primo Paese cristiano del mondo, convertito alla nuova religione agli inizi del IV secolo. Prima di Roma, prima di Costantino. E i re Zaguè, Yemrahana Krestos, Lalibela e Na’akweto La’ab sono stati canonizzati dalla Chiesa ortodossa. Come poteva essere altrimenti? Guardatevi attorno, a Lalibela: quello che vedete non è credibile. E così dovette pensarla anche Francisco Alvares, prete portoghese, primo europeo a raccontarci di Lalibela. Vi arrivò nel 1520 (quattro secoli dopo la costruzione delle chiese, dunque), al seguito della prima spedizione europea in questa terra africana. Alvares non credette ai suoi occhi quando scorse Bete Giyorgis. Vent’anni dopo avrebbe scritto: «Giuro su Dio che tutto quanto qui sta scritto è verità, e c’è molto di più di quanto io abbia scritto, e se mi sono limitato a questo è perché non mi si accusi di mendacio».

Povero Alvares. Nemmeno gli archeologi contemporanei sono riusciti a risolvere i mille rebus di Lalibela. Chi ha costruito queste chiese formidabili? In quanto tempo? Possiamo solo appigliarci a leggende sacre: gli operai di Lalibela scavavano di giorno, ma nella notte erano gli angeli a continuare il loro lavoro. La città sacra, la nuova Gerusalemme, undici basiliche rupestri incastrate una sull’altra, fu finita in soli ventiquattro anni.

Lalibela era un bambino predestinato. Alla nascita fu avvolto da uno sciame di api. Non lo ferirono. Era il segno divino: quel neonato sarebbe diventato re. Lalibela significa «le api riconoscono la sua regalità». Il giovane subì attentati per impedire che si realizzasse la profezia. Un diacono e un cane morirono per aver mangiato del cibo avvelenato a lui destinato. E lui, disperato, decise di morire con loro. Ma Dio aveva grandi progetti per quel ragazzo: per tre giorni rimase in coma, fu portato in volo a Gerusalemme. Questo era il compito che il Cielo voleva affidargli: costruire in Africa una replica della città più santa del mondo. Il re rientrò nelle sue montagne trasportato dall’arcangelo Gabriele. E, una volta sul trono, avviò la più straordinaria delle imprese architettoniche del medioevo africano: un piccolo villaggio, allora conosciuto come Roha, si trasformò davvero nella copia di Gerusalemme. Nelle sue montagne furono costruite, scavando la roccia, un groviglio di basiliche monolitiche, ipogee e semimonolitiche, collegate tra loro da un reticolo di passaggi sotterranei e gallerie.

Città invisibile e meravigliosa. Lalibela voleva farne meta di pellegrinaggio. L’altopiano etiopico, oramai, era accerchiato da terre musulmane, Gerusalemme era irraggiungibile. Ma qui i cristiani potevano adorare il volto di Cristo. Lalibela (dopo la morte del re, il villaggio di Roha prese il suo nome) era davvero una nuova Gerusalemme. Una Gerusalemme nera. Un canyon venne allargato e ridisegnato: il fiume che vi scorreva a ogni stagione delle piogge fu chiamato Giordano. Qui sono state ricostruite le tombe di Adamo (è uno degli ingressi all’area delle chiese), dei patriarchi e dello stesso Gesù Cristo. Sulle pareti di Bete Maryam apparvero affreschi raffinati. Medhane Alem è un’immensa cattedrale a cinque navate lunga oltre trenta metri. Bete Amanuel è perfetta con i suoi cinque absidi. San Giorgio protestò perché nessuna chiesa era a lui dedicata e Lalibela rimediò ordinando la costruzione della più bella tra tutte le basiliche: Bete Giyorgis è solitaria, a pianta cruciforme greca, commovente al tramonto.

Dejene ha 17 anni. È il figlio di kes Betay, il prete custode della chiesa di Golgotha. Mi dice che sta studiando, è diacono, e ora vuole andare all’università ad Addis Abeba. Poi spera di tornare a Lalibela e diventare, a sua volta, prete. Parla un buon inglese e mi racconta della terra, dell’acqua, della cenere. Suona il cellulare nascosto nelle pieghe delle vesti bianche del padre. Kes Betay si allontana e comincia una fitta conversazione. Dejene crederà davvero agli angeli-muratori? Si immerge nella lettura del Libro di David e sembra dimenticarsi della mia presenza. Stanno per arrivare gruppi di turisti. Ma, per un attimo, il silenzio è perfetto. La modernità, appena fuori dalla porta di Golgotha, è in equilibrio con una storia sacra a cui possiamo solo credere.

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017

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