Ghiacciai di casa nostra

Dal 1959 al 2017 i ghiacciai italiani hanno perso oltre 200 km² di superficie. Un trend in continuo peggioramento che preoccupa gli scienziati, ma anche le guide alpine...
04 Aprile 2022 | di

15 agosto 1939. Davanti all’ingresso del rifugio Branca, un signore sulla cinquantina, mani in tasca e sguardo assorto, si rilassa contemplando il candido spettacolo che lo circonda: il ghiacciaio dei Forni nel Parco dello Stelvio (SO). Settantaquattro anni dopo, la scena si ripete. Stessa location, stessa posa meditativa per l’avventore in maglia blu e pantaloni beige. Un solo dettaglio stona nella seconda fotografia: il paesaggio sullo sfondo. Al posto dei canaloni innevati, brulle rocce spolverate di bianco affiorano in lontananza da una nebbiolina che a stento si distingue dalle nuvole. Ecco a voi l’imponente ghiacciaio dei Forni ridotto a una pietraia qualunque in meno di un secolo. Anni in cui l’uomo ha sfruttato e inquinato il Pianeta. Anni di consumi e progressi. E mentre i gas serra saturavano l’atmosfera e la temperatura saliva, i ghiacciai si scioglievano... L’esempio di Forni, ridottosi del 36,2 per cento nell’intervallo 1850-2007, passando da una superficie di 17,80 km² a 11,36, è solo la punta di un iceberg ormai alla deriva. Il sintomo di una «malattia» a lungo denunciata, ma mai davvero debellata. Lo sa bene Guglielmina Diolaiuti, docente di glaciologia alpina e climatologia all’Università La Statale di Milano, dove, nel 2015, assieme al professor Claudio Smiraglia, ha stilato il Nuovo Catasto dei Ghiacciai Italiani, contando in tutto 903 ghiacciai (distribuiti perlopiù sulle Alpi, a eccezione del Calderone, sull’Appennino abruzzese).

Cinque anni dopo quel censimento, il team della docente ha prodotto, assieme a ricercatori francesi, austriaci, svizzeri e tedeschi, il Catasto dei ghiacciai Alpini Europei (consultabile al link: https://essd.copernicus.org/articles/12/1805/2020/). Elaborato utilizzando immagini satellitari Sentinel del 2016/2017 fornite dall’Agenzia Spaziale Europea, quest’ultimo studio conferma un trend in netto peggioramento. «Se tra il 1959 e il 2007 i ghiacciai italiani hanno perso 157 km² – riassume Diolaiuti –, tra il 1959 e il 2017 la cifra è salita a oltre 200». Al di là dello scioglimento in sé, a spaventare dunque è il ritmo con cui questo fenomeno è andato sempre più intensificandosi. «I valori di CO2 in atmosfera oggi sono i più alti degli ultimi 200 mila anni, la temperatura non è mai aumentata così tanto in 150 anni. Si tratta di un problema di scale temporali. Di questo passo, tra cinquant’anni probabilmente i ghiacciai alpini saranno estinti».

Per evitare quel che ormai sembra inevitabile non esistono scorciatoie. «L’unica azione concreta è ridurre la nostra impronta sul clima – aggiunge l’esperta –, ovvero le nostre emissioni di gas climalteranti». Una missione che richiede buona volontà da parte di tutti e consapevolezza. Da qui la scelta del gruppo di ricerca coordinato dalla professoressa Diolaiuti di creare sul web un tool auto valutativo (https://latuaimpronta.vaillant.it/) in grado di calcolare, tramite un questionario, le emissioni di CO2 in base allo stile di vita. Salvare i ghiacciai, in definitiva, non significa soltanto tutelare una risorsa energetica e idrica preziosa (sulle Alpi lombarde fino al 20 per cento dell’acqua che alimenta le centrali idroelettriche deriva dalla fusione del ghiaccio glaciale, per non parlare di alcune aree nel mondo, in primis la valle del Bagrot, in Pakistan, dove la popolazione ogni giorno preleva dal ghiacciaio blocchi, per poi fonderli nei villaggi, ottenendo acqua potabile). «Nei ghiacciai c’è vita – spiega ancora la scienziata dell’università meneghina –. Là batteri, lieviti, microorganismi a basse temperature svolgono funzioni uniche e, alcuni di essi, hanno un ruolo importante nell’accelerare la degradazione degli inquinanti. I ghiacciai, infine, modulano il clima planetario riflettendo parte della radiazione solare. Riducendosi e annerendosi, questa capacità di fare specchio viene meno, con impatti non secondari sul clima» conclude Guglielmina Diolaiuti.

Unica cattolica nel suo team di scienziati, la docente che studia i ghiacciai da oltre vent’anni, ha portato le proprie ricerche fino in Vaticano, dove qualche anno fa ha regalato a papa Francesco una copia del «suo» Catasto – «è stata per me una grande emozione ricevere la lettera di ringraziamento del Santo Padre!» ammette –. Del resto, chi ha detto che scienza e fede non sono compatibili? Basta leggere qualche stralcio della Laudato Si’ per constatare quanto Dio, uomo e Creato siano in realtà interconnessi. «Se il solo fatto di essere umani muove le persone a prendersi cura dell’ambiente del quale sono parte – recita l’enciclica di papa Bergoglio –, “i cristiani, in particolare, avvertono che i loro compiti all’interno del Creato, i loro doveri nei confronti della natura e del Creatore sono parte della loro fede”».

Dalla teoria alla pratica

Una volta osservato lo scioglimento dei ghiacciai con gli occhi di chi lo studia ogni giorno, tra teorie, numeri e immagini satellitari, viene da chiedersi quale sia invece la prospettiva di chi vive la montagna più nel concreto. A questa categoria appartiene Martino Peterlongo, presidente delle guide alpine italiane, trentino, classe 1970, che anno dopo anno ha visto le sue vette mutare. «Da almeno un decennio il deterioramento dei ghiacciai è sempre più evidente. Tante vie stanno scomparendo. Tra “neve molla” e crolli, l’alta montagna sta diventando sempre più pericolosa e imprevedibile – conferma la guida alpina, raggiunta al telefono mentre sta viaggiando alla volta del Monte Bianco –. Dopo un autunno senza precipitazioni, qualche nevicata e tanta alta pressione, mi aspetto di trovare crepacci aperti e un sottile manto tirato dal vento. Per questo, con tutta probabilità sarà necessario legarsi».

Posto che «il concetto di montagna sicura al 100 per cento non esiste», per ridurre i rischi al minimo servono, appunto, competenze e valutazioni mirate che solo professionisti come le guide alpine possono fornire. Da qui l’importanza di investire nella formazione: «Al di là delle conoscenze classiche, come le manovre di corda e la capacità di relazionarsi con le persone, i 120 giorni di formazione necessari per diventare guida alpina seguono sempre più le necessità legate al cambiamento climatico – continua Peterlongo –. Una buona guida oggigiorno deve avere competenze meteorologiche, geologiche e glaciologiche. Deve conoscere le tecnologie e saper “leggere” l’andamento delle stagioni». Investire nella conoscenza e nella specializzazione significa, del resto, favorire l’occupazione. «Il lavoro della guida alpina sta aumentando e non solo in alta montagna – conferma Peterlongo –. A crescere, in particolare, è la passione per l’aria aperta e per sport come sci alpinismo, escursionismo e arrampicata su roccia».

Ne sa qualcosa anche Lorenzo Iachelini, istruttore nazionale delle guide alpine con una laurea in geologia, che – complice il web, le fake news e la spettacolarizzazione a ogni costo – si trova spesso a dover smorzare l’entusiasmo dei suoi clienti. «Molti arrivano dall’estero. Dopo ore di viaggio in aereo, gasati da qualche video estremo scovato su YouTube, pretendono di cimentarsi in attività rischiose, di cambiare ogni giorno location, magari di visitare pure i mercatini di Natale e di fare un tuffo in piscina. Ma l’alta montagna non ha nulla a che fare con questo approccio esasperato. Richiede tempo, preparazione, rispetto e soprattutto flessibilità». La stessa flessibilità con cui l’uomo contemporaneo deve imparare ad affrontare il cambiamento climatico. A prescindere dallo studio accademico dei ghiacciai, «concentriamoci anche sulle possibilità che ci restano – continua Iachelini, che per tre mesi l’anno gestisce il rifugio Dorigoni in Val di Rabbi (TN) –. La sfida del futuro si gioca tutta sulla capacità di adattarsi al cambiamento. Il mondo ora chiede innovazione, in primis nel ragionamento».

Inutile allora piangersi addosso se il ghiacciaio del Careser, nel gruppo dell’Ortles-Cevedale, si è dimezzato negli ultimi trent’anni, se negli ultimi cinque l’Adamello ha perso dodici metri di spessore e i cosiddetti «seracchi» della Marmolada (spuntoni di ghiaccio originati dall’apertura di crepacci, dove gli alpinisti si esercitavano negli anni ’80-’90) non esistono neanche più. «Tra cinque anni il 50 per cento dei rifugi alpini riscontrerà enormi problemi nel reperimento idrico. Invece di costruire baite di lusso a duemila metri, con tanto di camere super riscaldate, ristoranti stellati e servizio di elicottero al bisogno, investiamo in nuovi sistemi d’accumulo dell’energia e di depurazione dell’acqua». Parla con cognizione di causa Lorenzo Iachelini che, per il suo rifugio in Val di Rabbi, ha assemblato con le proprie mani un pannello integrato, con tre tipologie di filtro, svincolandosi così dalla schiavitù delle bottiglie di plastica. «Purtroppo credo di essere uno dei pochissimi gestori di rifugi in Trentino ad essersi posto il problema» commenta ancora la guida alpina. Segno che la strada verso una mentalità sostenibile condivisa è ancora lunga e in salita. Ma, in fondo, vivere al 100 per cento l’alta quota significa anche faticare, accontentarsi e trarre soddisfazione da ogni piccolo-grande traguardo. «Perché la montagna è democratica – conclude Lorenzo Iachelini –. Basta affrontarla per gradi, sgombrando la mente!».

(PS. Se, dopo aver letto questo articolo, siete stati rapiti dalla curiosità e avete deciso di mettervi alla prova visitando un ghiacciaio alpino, il consiglio degli esperti è di iniziare dall’Adamello o da quello dei Forni: a quanto pare i più attrezzati in fatto di sentieri e punti di ristoro!)

 

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Data di aggiornamento: 04 Aprile 2022
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