Invertiamo l’orologio climatico
La crisi climatica è in corso ed è grave, lo dimostrano le ondate di calore eccezionale della scorsa estate, ma noi possiamo ancora salvare il pianeta. A dirlo sono giovani e giovanissimi a cui va dato il merito di aver cambiato la narrazione, la percezione e i tempi di un problema globale che se lasciato solo in balìa degli interessi economici e delle preoccupazioni elettorali dei politici porterebbe l’umanità dritta nel baratro.
Una svolta che inizia il 20 agosto 2018, quando una quindicenne svedese, Greta Thunberg, comincia uno sciopero davanti al parlamento del proprio Paese per protestare contro l’inerzia della politica rispetto al riscaldamento globale e ai danni provocati dai gas serra. Il suo gesto e le sue parole fanno il giro del mondo: «Voi parlate soltanto di un’eterna crescita dell’economia […] poiché avete troppa paura di essere impopolari. Voi parlate soltanto di proseguire con le stesse cattive idee che ci hanno condotto a questo casino […]. La sofferenza di molte persone paga il lusso di pochi. Se è impossibile trovare soluzioni all’interno di questo sistema, allora dobbiamo cambiare sistema […]. Voi dite di amare i vostri figli sopra qualsiasi altra cosa, eppure state rubando il loro futuro […]. Voi avete finito le scuse, e noi stiamo finendo il tempo […]».
È il messaggio giusto al momento giusto. Per le ragazze e i ragazzi di tutto il mondo è un’illuminazione: è il loro futuro, è la loro lotta. Possono ancora farcela. Insieme. Nascono così i «Fridays for future», venerdì di scioperi studenteschi che riempiono le piazze del mondo. Un’attivazione giovanile che presto diventa un movimento. Oggi il «Fridays for future» ha diramazioni in tutto il mondo e vari livelli di attivismo, dal locale fino all’internazionale.
Non si tratta solo di protesta, ma anche di proposta: i vari gruppi organizzano focus con studiosi e scienziati per trovare soluzioni percorribili e proporle alla politica. Concreti, espliciti, preparati, sbaragliano ogni pregiudizio su una generazione seduta sugli allori e mettono sotto scacco i loro padri, chiedendo conto, punto per punto, di tutto quello che si dovrebbe fare per salvare il pianeta e che non è ancora stato fatto.
Martina Comparelli, 27 anni, laurea in Scienze politiche, master alla London School of Economics e una specializzazione in cambiamento climatico a Yale, è dal marzo scorso una dei sei portavoce italiani del movimento: «All’inizio non volevamo portavoce – spiega –, perché il nostro è un movimento orizzontale e quindi a ogni intervista cambiava la persona. Poi però ci siamo accorti che questa modalità era controproducente: apparivamo confusi e insicuri agli occhi dei media, mentre noi abbiamo idee molto chiare. Per di più rischiavamo che persone esterne al movimento parlassero al posto nostro».
Msa. È da tempo che si sente parlare di crisi climatica, ma quanto vicini siamo al punto di non ritorno?
Comparelli. Secondo il climate clock, che ho anche sul mio cellulare, mancano 6 anni e 192 giorni alla fine del carbon budget, che è la quantità di emissioni che l’umanità ha ancora a disposizione per stare sotto i due gradi di innalzamento globale della temperatura. L’accordo di Parigi del 2015 stabilisce che bisogna attuare tutte le misure possibili per far sì che tale aumento, rispetto al livello pre-industriale, non vada oltre i due gradi. Anzi, meglio se resta a 1.5 gradi. Può sembrare poca cosa, ma se la mia temperatura corporea passa dai 36,5 ai 38,5 gradi io devo starmene a letto. Con due gradi in più, il Pianeta ha già la febbre piuttosto alta. Quindi non abbiamo più molto tempo.
E se tutti gli abitanti della Terra s’impegnassero in azioni personali per limitare i gas serra?
Sarebbe importante, ma non sarebbe sufficiente. Anzi, sottolineando solo la responsabilità dei singoli si rischia di perdere di vista i veri responsabili del cambiamento climatico. Oggi 100 industrie collegate ai combustibili fossili causano da sole il 70 per cento delle emissioni del pianeta. Per cambiare le cose, l’azione più utile da fare da parte di ogni cittadino è parlarne, rendere gli altri consapevoli del problema, tornare alla politica e chiedere ai leader di mettere al primo posto gli interessi delle persone rispetto a quelli dell’economia. E ciò può succedere solo se lo Stato torna a governare le politiche industriali.
Che cosa vi preoccupa di più?
Chi sta prendendo le decisioni per noi adesso, nel 2050 non ci sarà più, ma noi sì e anche chi non è ancora nato. Noi pagheremo le conseguenze di queste decisioni a caro prezzo. Quindi bisogna far sì che la mitigazione del cambiamento climatico sia urgente e decisa a livello politico.
Quali sono le cose più importanti da fare?
Noi avevamo elaborato delle proposte per uscire dalla crisi post covid con l’obiettivo di non tornare al passato, ma di approfittare di questo stop per costruire un nuovo futuro. Un canovaccio che avevamo condiviso con studiosi e scienziati. Al primo posto c’era, e continua a esserci, l’uscita dal fossile e la transizione a energie totalmente rinnovabili per arrivare a zero emissioni il prima possibile. Lo Stato deve rendersi garante della transizione ecologica e deve fare in modo che nessuno resti indietro. Altro aspetto importante è prevenire le conseguenze dei cambiamenti climatici, partendo dalle persone che più risentiranno di questa crisi. E in questo la scuola dovrebbe avere un ruolo fondamentale, spiegando la crisi climatica e le possibili azioni per contrastarla. Non possiamo più farci trovare impreparati, come invece è avvenuto per la pandemia.
A volte denunciate che la politica vi chiama ai tavoli ma ha un atteggiamento paternalistico nei vostri confronti. Come giudicate il piano italiano per il Next Generation Eu?
Ho visto in generale una mancanza di ambizione, che speravo di non vedere più nel 2021. Poi ci sono buchi rilevanti: non c’è una parola sulla filiera agroalimentare che ha un grande impatto sul clima. I trasporti sono trattati in modo approssimativo: si investono un sacco di soldi sull’alta velocità, quando la maggior parte dell’inquinamento da trasporto è sul breve e medio tragitto. Poi si dà grande importanza all’idrogeno blu, che deriva da combustibili fossili, invece di puntare direttamente sulle rinnovabili. La scusa è la solita: «Va bene l’ambiente, ma non possiamo lasciare indietro le aziende». In realtà a livello globale l’economia si sta spostando verso la sostenibilità, anche perché le rinnovabili costano sempre meno. Invece la nostra politica resta ancorata a vecchie visioni e credo che il motivo sia per salvaguardare l’interesse dei pochi a scapito dei molti.
Diventare un’attivista come ti ha cambiato la vita?
Non passo un giorno senza pensare, leggere, scrivere sui miei social riguardo a questo argomento, senza tenere gli occhi aperti su tutto ciò che si fa o non si fa per salvare il mio futuro. Nel momento in cui inizi a fare attivismo, da un lato entri in una sorta di ansia, che gli specialisti chiamano «ecoansia», ma dall’altro entri in contatto con persone in tutto il mondo che la pensano come te e questo ti dà forza e voglia di reagire.
Martina, hai detto che mancano sei anni e 192 giorni alla fine del carbon budget. Ce la faremo?
Il fatto che gli scienziati ci diano ancora questo tempo ci dice che il mondo non è perduto, ma che dobbiamo fare presto. Io continuo a lottare per il futuro qualsiasi cosa accada. Tuttavia sono convinta che alla fine ce la faremo, perché non abbiamo alternative.
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