Il corpo: variazioni (d’arte) sul tema
Due gambe, due braccia, una testa, un busto… La sagoma la conosciamo fin troppo bene, perché è uguale alla nostra. Al posto della pelle, però, L’uomo colore di Martin Jarrie sfoggia una livrea da far invidia ad Arlecchino. Sfere rosse, gialle, verdi e blu si sovrappongono sul suo corpo come in un gioco a chi spicca di più. Ed ecco che, in un istante, semplicità fa rima con esuberanza; il finito si fonde con l’infinito. Siamo tutti diversi e paradossalmente uguali, sembra suggerire il disegno, scelto tra ottantasei opere come mascotte de «I colori del sacro». Per questa nona edizione, la rassegna d’illustrazione per l’infanzia ospitata al Museo diocesano di Padova fino al 24 giugno segue proprio il corpo come fil rouge, cardine della vita e prima dimora dell’uomo. Non solo un aggregato di cellule, carne e sangue, ma anche lo strumento che permette di crescere, sperimentare e spiccare il volo. Prima nel mondo sensibile, poi in quello dello spirito.
Il corpo, dunque, come prodotto di sensazioni, ma anche di relazioni e sentimenti. «Un terreno davvero molto scivoloso – ammette Andrea Nante, direttore del Museo diocesano che ha curato la mostra –. Non a caso quest’anno, in vista della kermesse, ci siamo preparati molto, a partire dalla lettura di Storia di un corpo di Daniel Pennac». Ma che cosa intendiamo davvero quando parliamo di «corpo»? I quarantacinque illustratori da tutto il mondo, ospiti al Museo diocesano, hanno tentato di rispondere al quesito. Il risultato è un viaggio in quattro tappe che, partendo dall’esplorazione del corpo in sé, affronta il suo cambiamento, il rapporto con l’esterno e con l’Assoluto. Perché se è vero, come recita la Bibbia (1Cor 6,19), che il corpo è «tempio dello Spirito Santo» o che – parafrasando l’apologeta cristiano Tertulliano – «la carne è il cardine della salvezza », sarebbe davvero un grave errore sottovalutarlo.
I quattro stadi dell’umanità
Tre spettatrici in ascolto di una violinista; una mamma che tiene sulle ginocchia il figlio. E ancora: due donne che, fianco a fianco, si scrutano; un gentiluomo che assapora il caffè. Ad accomunare queste scene di quotidianità disegnate da Sylvie Bello (Udito, Tatto, Vista, Gusto/Olfatto) sono appunto i cinque sensi, «marchi di fabbrica» del corpo in quanto luogo della fisicità. Abbiamo appena imboccato il tragitto de «I colori del sacro» e siamo già immersi nella materia. Mani e labbra, piedi e occhi ci accerchiano. Mentre un grosso cervello si eleva in cielo a mo’ di mongolfiera (Brain di Maria Sole Macchia), due polmoni si ricoprono di tralci e foglie (Lungs). Tra i ventricoli di un gigantesco cuore nuotano sirenette e vegetano coralli (Heart). Complice la creatività, non c’è nulla di spaventoso nell’anatomia umana. Lo sa bene Ana Ventura che ne Il mio sistema circolatorio braccio destro e braccio sinistro trasforma vene e arterie in rami fioriti su cui cinguettano i pettirossi.
Proprio la metamorfosi del corpo è il secondo filo conduttore della rassegna. Che sia rappresentata in rapporto al tempo o allo spazio poco importa. Vedere per credere la bambina che si fa progressivamente donna in Grow up di Alessandra De Cristofaro, il giovane nuotatore che, a furia di tenere le gambe in acqua, ha «guadagnato» una testa di rana (Valentina Malgarise, Splash) e le esuberanti protagoniste di Vittoria Facchini (Del cambiamento – bambina) alle prese con peli, brufoli e tante altre scocciature tipiche della pubertà. Il corpo cambia in continuazione. Anche se a volte non lo vorremmo. Anche quando una malattia ci ruba i capelli e ci regala in cambio un pallore quasi alieno. Il mio corpo cambia e si trasforma, ma io sono sempre io s’intitola il toccante ritratto di Isabella Camisciano, omaggio a chi combatte giorno dopo giorno contro il cancro. Ogni metamorfosi, dalla più traumatica alla meno percettibile, richiede sofferenza e sacrificio. Pensiamo alla Sirenetta tratteggiata da Michelangelo Rossato (Trasformazione e Salvataggio) che – come racconta Hans Christian Andersen –, dopo aver barattato la voce per un paio di gambe umane, non essendo riuscita a conquistare l’amato, si dissolve nella schiuma del mare. Troppa tristezza per l’epilogo di una fiaba? In fondo si tratta solo dell’ennesima mutazione, un’altra tappa verso l’infinito.
L’incontro e la relazione con l’esterno, sia esso paesaggio o essere umano, è il tema dominante della terza sezione. Con gli occhi puntati sull’abito di Elisa Talentino (Rocce sacre) tappezzato di alberi, terra e acqua, ci tuffiamo letteralmente nella natura. Foreste e laghi, animali e cieli sconfinati si possono indossare eccome. Parola di Joanna Concejo e del suo barbuto Papà (che) ama la natura. È bello perdersi, a patto poi di ritrovarsi. Guai sprofondare sulla poltrona diventando tutt’uno con la tappezzeria (Letizia Iannaccone, Il corpo perduto). Molto meglio osteggiare l’invisibilità. A maggior ragione quando siamo in un vagone della metro e i nostri vicini di carrozza ci ignorano (Lilia Migliorisi, Così vicino così incredibilmente lontano); o quando camminiamo per strada e vediamo le sagome dei passanti sovrapporsi, quasi fossero fantasmi (Emilio Uberuaga, Corpi incomunicanti). Il corpo acquista senso e pienezza solo quando entra in rapporto con l’altro da sé. Ne è convinto anche Lorenzo Mattotti, noto, tra l’altro, per le sue copertine del «The New Yorker». A «I Colori del sacro» l’artista bresciano mette in scena due fasi della vita di coppia: la ricerca e il contatto, la tenerezza e la passione. Tutto ruota attorno a un uomo e a una donna sdraiati su un letto (Stanza rosa e Stanza rossa). Muti e apparentemente anonimi. Se non fosse che, al loro posto, parlano colori e gesti. Silenzio e sinergia, gioco e intesa di sguardi: così dovrebbe essere l’amore tra due persone. Ma ancora una volta non finisce qui. Il corpo ha ancora molto da raccontare…
Mentre entriamo nella quarta e ultima sezione della rassegna, una luce fredda ci invita a prendere posto tra vasi bianchi pieni di erbe e fiori svaniti. Da un’anfora rovesciata scende un filo di polvere. La stessa che una pallida ragazzina in groppa al suo destriero (anche lui rigorosamente incolore) tiene tra le mani con lo sguardo fisso verso l’alto. Già dal titolo dell’opera (Erba e polvere - Isaia 40, 6-7) il riferimento di Gabriel Pacheco alla Bibbia è lampante. «Ogni uomo (carne) è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce quando il soffio del Signore spira su di essi». Siamo lontani dal trionfo di colore ed energia delle prime sale. Sempre più impalpabile, il corpo abbandona poco a poco la materia al seguito della fede. Si dissolve alla luce dello Spirito Santo nell’acquerello Il Giardino dell’Eden di Anna Castagnoli. Assume una tonalità verdastra in Il corpo di Cristo in croce di Giovanni Manna. Smunge e infeltrisce nella matita Davide e Golia di Simone Rea.
E, infine, ritrova se stesso nell’incontro con Dio. Hai mutato il mio lamento in danza s’intitola l’elaborazione digitale di Sara Stefanini ispirata al Salmo 30,12-13. «Hai mutato il mio lamento in danza – recita il versetto –, mi hai tolto l’abito di sacco, mi hai rivestito di gioia, perché ti canti il mio cuore, senza tacere; Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre». Per un attimo ripensiamo a L’uomo colore incontrato all’ingresso della mostra, poi esaminiamo quest’ultimo individuo che danza abbracciato a una silhouette rossa. E il cerchio si chiude. L’evoluzione del corpo da materia a spirito, da singolo a parte del tutto, è compiuta. Mentre lasciamo il Museo, alcuni versi del poeta siriano Ali Ahmad Sai’id Esber riecheggiano nella mente: «I nostri corpi sono il tempo e il luogo / ogni organo in noi è un paese e una storia / ogni palpito una festa». Attraversiamo una piazza tra sciami di bambini mascherati che si inseguono lanciandosi coriandoli (mentre scriviamo il Carnevale non è ancora finito). Raramente poesia fu più azzeccata.