La pulizia interiore
Nicola ha passato una notte «da cani», i crampi dell’astinenza c’erano tutti, ma ha ormai deciso di liberarsi da qualcosa che per tanti anni gli ha sporcato la vita, l’ha deteriorata. La Comunità lo sta sostenendo nel suo impegno di fare pulizia nella mente e nell’anima, mentre la parte bio-fisica si sta riorganizzando di suo, con qualche spasimo, per funzionare senza droga. Non c’è cambiamento se non facendo il vuoto del marciume che, a livello esistenziale, è andato stratificandosi dentro e attorno, se non vengono estromessi o comunque ben governati, i «rifiuti» prodotti da certi stili di vita.
Sant’Antonio nel Sermone di Pentecoste ci sollecita a prendere sul serio la questione dei «rifiuti», a partire da quelli prodotti dagli stessi processi che regolano gli organismi viventi, fino ai «rifiuti tossici dell’anima», espulsi nel cammino di conversione morale e religiosa. I rifiuti, la cosiddetta «monnezza», non sono mai una questione secondaria e lo sanno sia le grandi città con le loro montagne di spazzatura che le povere «terre dei fuochi»; e lo sappiamo bene anche noi, se ci guardiamo dentro con sincerità.
Noè, approntando l’arca, affronta genialmente il problema dei rifiuti: prevede – per ordine divino, ma anche per esperienza – un intero scomparto per i rifiuti, prima ancora di quello per i viveri, proprio in ossequio alla funzione salvatrice e purificatrice dell’arca. Questa, infatti, nella sua lunga deriva doveva essere il contenitore ben ordinato di una nuova ecologia di più giusti rapporti con il Signore e tra i superstiti, in vista e in preparazione della rinascita dell’umanità a diluvio risolto. E i rifiuti andavano gestiti, non dispersi in acqua (un bel segno di ambientalismo biblico!).
La pedagogia di sant’Antonio è chiara: «Noè è figura del giusto (cf. Gen 6,9), la cui arca è il proprio corpo» (Domenica di Pentecoste, II-4). E spiega: «Il primo scomparto è quello dei rifiuti, lo sterquilinio. Ed è figura della lingua della nostra bocca, per mezzo della quale dobbiamo buttar fuori, nella confessione, tutto lo sterco dei nostri peccati» (Domenica di Pentecoste, II-5).
Per Antonio la confessione dei peccati è, in qualche modo, somigliante simbolicamente a questo «primo scomparto», il quale, accogliendo e riciclando la tossicità del male in tutte le sue forme, permette la vita degli altri scomparti. Nella cultura del «tutto e subito» si vorrebbe diventare puliti, dentro e fuori, molto velocemente, bruciando le tappe.
Incontro ragazzi, del resto molto motivati, che vorrebbero, in brevissimo tempo, gettare via ogni strascico fisico e psicologico della droga nel famoso «sterquilinio», ma presto capiscono che ci vuole tempo, umiltà e costanza. Antonio dice nel Sermone per le Feste dei santi: «Nessuno diventa perfetto in un istante, e quindi ci dobbiamo abituare un po’ alla volta a disprezzare le ricchezze e i piaceri» (Natività di san Giovanni Battista, IV-10), indicazione che vale, pari pari, anche per il cammino di uscita dalle dipendenze, proprio perché realisticamente «l’abitudine è una seconda natura, e si elimina con un’altra abitudine».
Allora il nostro Nicola deve fare i conti con il proprio dolore, i tempi di permanenza in Comunità concordati, con tutte le nuove suggestioni che gli sono offerte, e con il «meno bello» di sé che, pian piano, va a raggiungere lo scomparto appropriato. E magari anche pensando, come suggerisce ancora sant’Antonio nello stesso Sermone: «Sono un essere superiore e destinato a cose troppo grandi, perché io possa rimanere schiavo del mio corpo». Qualora si presenti ancora una nottata in cui la conta delle pecore vada a peggiorare le cose.