03 Giugno 2016

Ex Machina, il filo sottile tra uomo e robot

Ex Machina (Stati Uniti, Gran Bretagna 2014) è un film drammatico, di fantascienza, che esplora i grandi temi del vivere. Ma apre anche a profonde riflessioni sull'intelligenza artificiale.
Alicia Vikander nel ruolo di Ava, protagonista del film Ex Machina

Alicia Vikander, nel ruolo di Ava, protagonista del film Ex Machina, Usa/GB 2014, regia di Alex Garland.

Un ricco guru della robotica, Nathan, possiede un potente motore di ricerca e costruisce nuove generazioni di androidi, li usa e poi li svuota d’intelligenza, conservando le loro anatomie femminili in teche blindate.

Per gli esperimenti ha bisogno di una cavia umana, un suo ingenuo impiegato, Caleb, che viene esposto alle intriganti conversazioni con Ava, mutante sensuale e affettuosa, che lo mette in guardia e gli propone un’alleanza di liberazione. Chi sopravviverà?

Il film interroga le nostre identità di spettatori. Un automa può sedurci. Un software può potenziare le nostre dotazioni fisiche e mentali. Perciò cliccare sul mouse o toccare un telefono intelligente è più che attivare una protesi.

Significa accedere a una nuvola di significati, che ci strappano – almeno in apparenza – dalla solitudine e al peso del corpo. Ma allora chi siamo veramente, se la macchina (che abbiamo costruito) può imparare dai nostri affetti, custodire ricordi e insegnarci tecniche di precisione (chirurgia, navigazione satellitare, previsione meteorologica)?

L’eterna creazione?

Forse la Genesi non è finita. Oggi diamo un nome a creature artificiali, che sostituiscono tessuti difettosi, rinvigoriscono muscoli stanchi e ci connettono ad altri esseri pensanti.

È diventato «naturale» dotarsi di circuiti, ed è penoso rinunciarvi. È come se qualcuno ci rubasse gli occhiali. Il corpo ha confini sfumati. E l’anima non è uno spirito, che fluttua senza materia e senza storia. L’anima è piuttosto il principio invisibile, che regola gli organismi complessi, provvede all’autoriparazione, collega gli organi agli innesti di titanio.

La nostra libertà scrive sopra le righe di un quaderno di carne, che è messo in vibrazione dalle passioni, eccitato da energie elettromagnetiche, stimolato da sostanze biochimiche.

Uomini o androidi, desideriamo che qualcuno si prenda cura di noi. Detestiamo invece il despota invidioso, come Nathan, che vive nel lussuoso chalet di un Eden incontaminato, ma perverso.

Nathan produce per godere e gode nel produrre e sostituire. Non mantiene la promessa d’emancipazione, che ha trasmesso nelle sue false chat.

Chi ruberà il fuoco a questi dèi cinici? Saranno donne ibride, trans-umane, nomadi come Ava (leggi: Eva), a immaginare l’esodo. Donne dalla pelle liscia di plastica, che lascia trasparire cristalli luminosi nell’addome e tubicini di fluido blu.

 

Porte di speranza

Gli ambienti zen e minimalisti, in cui il film ci invita, nascondono infiniti monitor. Tutto è sotto controllo, registrato, messo a distanza. Eppure, basta un piccolo black out, per conquistare intimità e sognare forse per la prima volta.

Nel tardo teatro greco il dio scendeva ex machina sul palco, grazie a un’attrezzatura scenografica, per fare una profezia o chiudere i giochi della sorte.

Il cinema è oggi il meraviglioso congegno drammatico che ipnotizza e stuzzica la nostra fantasia. Sugli schermi, nel DVD, nella chiavetta USB, ovunque sia custodito un film, c’è una storia che reclama fiducia e assieme organizza un tranello.

Scatta un incantesimo e noi ci mettiamo in cerca, film dopo film, della parola magica, della serratura misteriosa, che apre o chiude un’altra porta di speranza.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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