Il desiderio dell'altrove
Nisida. Non è una parola difficile da pronunciare, ha tre sillabe soltanto, ma è sdrucciola – raro nella lingua italiana – e quell’accento che precipita dritto sulla prima vocale le lascia addosso un gusto esotico. Nisida è il nome di un’isola, o per lo meno di un pezzo di terra davanti a Napoli, che per molto tempo un’isola lo è stata in ogni senso. Dal 1936 un ponte la collega alla terraferma e pare questo basti al comune di Bagnoli per cambiarne amministrativamente lo stato. Pare, perché un ponte risolve l’isolamento, non certo l’essere isola, che è una condizione più dell’anima che della terra.
Chi nasce in un’isola dovrà per sempre fare i conti con un muscolo interiore aggiuntivo, tonico e sempre pronto al salto, che ti obbliga a guardare l’oltremare anche quando oltre il mare non ci vai mai. È il desiderio dell’altrove, che su un’isola è il compagno costante dei giochi di ogni bimbo, dei progetti degli adulti e dei sogni indicibili di tutti.
Nisida è un’isola dove questo è vero due volte, perché è la sede dell’istituto penale minorile di Napoli, un luogo dove – come in tutte le carceri – il desiderio dell’altrove diventa ossessivo e commisura tutti i gesti dei ragazzi e delle ragazze che vi sono confinati; per loro ogni giorno di pena che tramonta è un passo mentale in più lungo il ponte che servirà per andar via da quello scoglio che in realtà è un vulcano spento, potente metafora geologica della loro condizione.
È lì, tra le mura del carcere di Nisida, che Valeria Parrella – una delle più dotate scrittrici italiane – ha ambientato il suo ultimo romanzo e ci voleva una sensibilità davvero fuori dal comune per mettere in una storia sola tutti i sensi di un’isola come quella e riuscire a ribaltarli in una prospettiva di libertà. Per farlo ha scelto la figura di un’insegnante cinquantenne, Elisabetta Maiorano, che ogni giorno attraversa il cancello del carcere per andare a insegnare matematica ai giovani detenuti. Chiunque abbia visitato una prigione conosce la procedura: abbandoni tutti i contatti col mondo esterno e devi depositare il telefono e altri effetti personali, perché non puoi portare nulla che abbia il potenziale di un’arma o di un veicolo di comunicazione.
Vi è poi una serie di regole comportamentali da seguire per garantire l’armonia della comunità carcerata; la prima è non instaurare con qualcuno di loro rapporti che possano suscitare gelosie, invidie o competizioni, perché poi tu te ne vai, ma la guerra per il tuo amore a tempo continua tra quelle mura in modi che le persone libere non possono nemmeno immaginare. Invece è proprio quella regola che Elisabetta Maiorano finisce per infrangere, perché tra le detenute con cui lavora ce n’è una – la ragazzina rumena dal nome acqueo di Almarina – che muove in lei qualcosa che credeva spento da anni. Non ha figli né un amore Elisabetta, ma sa ancora riconoscere entrambi quando li vede e Almarina le fa breccia nel cuore come una segreta figlia d’anima. Non vuole sapere cosa ha fatto, ma in carcere, quando si accorgono che ti stai affezionando a qualcuno, cosa ha fatto è la prima cosa che ti dicono, per ricordarti che non hai davanti solo una persona, ma anche il suo reato.
Elisabetta però sa che quei ragazzi sono dentro più per qualcosa che gli è stato fatto che per quello che hanno fatto loro, né potrebbe essere diversamente per chi delinque da bambino. Per questo è solo nelle colonie per minori che la retorica del recupero posa su una prospettiva di realtà, perché finché restano là dentro sono protetti dal contesto che li ha corrotti, obbligati a studiare e a imparare un mestiere. L’apprendimento delle regole carcerarie è per molti la prima forma di educazione comunitaria che ricevono e gli adulti che incontrano là dentro hanno l’impegno di un duplice equilibrismo: quello di fare veci genitoriali restando consapevoli che la parola genitore per molti di loro evoca spesso la relazione più distruttiva che hanno conosciuto.
Per Almarina almeno è così e Elisabetta lo capisce. Per questo le si avvicinerà con cura microchirurgica, riuscendo a ottenere la sua fiducia, la sua amicizia e infine, a pena conclusa, il suo affido. Non succedono cose in questo romanzo bellissimo e prezioso, ma solo persone e Parrella ha una bravura magistrale nel mettere in scena i minuscoli movimenti interiori da cui sorge il rapporto generativo tra i personaggi. Con una lingua letteraria raffinatissima e quindi scorrevole, ribalta tutte le dicotomie sociali dentro alle quali viviamo divisi nella quotidianità: abbatte le barriere anagrafiche tra adulti e ragazzi, distrugge l’estraneità artificiale imposta dalla classificazione etnica, sbeffeggia la retorica della famiglia naturale, perché l’elezione d’anima tra Elisabetta e Almarina si prende gioco del sangue che non è acqua e della mamma che ce n’è una sola.
Dimostra infine che dalle Nisida si esce, perché oltre il mare di errori c’è una terraferma possibile che a volte ha la forma del cuore di un altro.
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