Il design è (anche) femmina

Con «W. Women in italian design», alla Triennale di Milano fino al 19 febbraio, la creatività femminile si mette in mostra.
10 Agosto 2016 | di

Un tempo erano semplicemente «donne di casa». Ricamavano, tessevano, in una parola: creavano… sul tavolo della cucina, davanti al focolare, al limite nel laboratorio del padre o del marito. Eppure, da Penelope in avanti, nessuno si sarebbe sognato di chiamarle designer. Poi è arrivato il Novecento e, con esso, la voglia di restituire all’universo rosa il meritato riconoscimento. A tale scopo mostre e pubblicazioni si sono susseguite dentro e fuori l’Italia. Ma fare luce su quel che per secoli è stato omesso o sminuito non è impresa da poco. Ancora oggi il percorso di «rivincita artistica» femminile serba molte incognite. Non a caso, attraversando il ponte tubolare al primo piano della Triennale di Milano, la mente corre subito alla tana del Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie. D’un tratto le ante nere in fondo al tunnel si spalancano tagliando a metà la grande W bianca che vi campeggia sopra. W come Women: le donne a cui la mostra «W. Women in italian design» è dedicata fino al 19 febbraio 2017.

Per esporre le circa 650 opere realizzate da oltre 350 designer donne dai primi del Novecento ai giorni nostri, la curatrice Silvana Annicchiarico ha allestito una «camera oscura» e una galleria vetrata con vista su Parco Sempione. Adagiati alle pareti o su anonimi espositori cilindrici, appesi al soffitto o racchiusi in campane di vetro, gioielli e abiti, soprammobili e pezzi di arredamento si rincorrono dal buio alla luce in un gioco di ruoli che scardina i luoghi comuni. In barba alla tradizione patriarcale, il design è (anche) femmina. Vola sulle ali della lampada Pipistrello di Gae Aulenti (1965), si posa sul tavolo-vassoio T-98 di Franca Helg (1956), trova ristoro all’ombra della Tenda in sicofoil firmata Claudia Accardi (1965). Se è vero che, come indica una recente indagine di Confindustria, «il basso impiego delle donne nel lavoro significa spreco di risorse e talenti», forse è venuto il momento di aprire gli occhi e sgombrare il campo dai pregiudizi. La creatività prescinde dai cromosomi. E crederci è il primo passo per riuscire, presto o tardi, ad assaporarne i frutti.

L’arte dell’intreccio

In principio fu il filo. Non c’è donna nell’antichità che non si sia confrontata con l’arte dell’intreccio. Ancora oggi la femmina tesse: fili, ma anche emozioni, destini, relazioni… in virtù di quella costanza che da sempre la contraddistingue. Ecco dunque spiegata la scelta di aprire la mostra «W. Women in italian design» con una sala a tema. Nell’oscurità piccoli bagliori sorprendono a ogni passo. Centritavola ricamati neanche fossero grossi coralli calcificati (su tutti, il Centrino firmato Aemilia Ars, 1900), merletti stesi alle pareti come mosaici bizantini sottratti alla polvere, tovaglie da tè cesellate a mo’ di ragnatela (manifattura canturina 1925-50).

Nell’antro dell’intreccio la mimesi regna sovrana. Nulla è quel che sembra. Strumento della creatività per eccellenza, il Telaio di Marta Lai (1970) diventa esso stesso un intreccio. Di colori, materiali, superfici. Come nel gioco dello Shanghai, le linee s’incrociano e assumono nuova identità. Così accade pure nel Libro del mare (1983) di Franca Sonnino, dove le reti dei pescatori si assemblano quasi a formare un volume. Certo, mancano parole e immagini. Ma la profondità di queste «pagine» sta proprio nella libertà di interpretazione che esse concedono al loro fruitore. Libere com’è libero il mare, sconfinate come l’amore di una madre per il proprio figlio.

Al lato opposto della stanza un altro volume irradia una fioca luce invernale. Realizzato nel 2000 da Anna Uncini, il Libro bianco è puro virtuosismo. Le parole cedono il passo a grovigli candidi: il risultato di ore e ore trascorse ad attorcigliare uno spago su due fogli di cartoncino. Ne valeva la pena? Viene da chiedersi. Neanche il più autorevole dei critici può dirlo. Perché cosa ciascun visitatore leggerà tra i soffici «spartiti» è un mistero destinato a rimanere tale. L’immaginazione galoppa nell’Arazzo blu (1996) di Enrica Borghi tra figure geometriche e fiori stilizzati, fino a raggiungere la Mappa per un viaggio immaginario 1 (2002). Niente riferimenti geografici, tantomeno nomi di luoghi, per questo rotolo fluttuante. Solo un dedalo di fili bianchi. La rotta è tutta da decidere. Bussole e punti cardinali non serviranno. Per il viaggio ipotizzato da Wanda Casaril non resta che seguire l’istinto.

Estetica e tradizione

Nel Palazzo della Triennale l’intreccio si gusta con lo sguardo, ma si indossa pure. È quello della collana Dodici capelli (2008), realizzata con vero crine da Genny Iorio, e del Guanto veneziano (1985) di Renata Bonfanti, le cui dita sfumano in lunghi fili dorati. Bellezza, del resto, non fa sempre rima con praticità per le designer in mostra a Milano. Chissà come reagirebbe Hans Christian Andersen se sapesse che il mantello della sua Regina delle nevi (la prima edizione originale dell’omonima fiaba risale al 1844) ora è un tripudio di petali e perline bianchi intrecciati da Sabrina Mezzaqui (Il mantello della regina delle nevi, 2014) e racchiusi dietro a una vetrina accanto a sagome di lampadari e poltrone (Spaesaggi, 2010, di Marina Gasparini) in filo di cotone.

Pochi passi più in là l’arte dell’intreccio rende omaggio anche alla storia italiana della scrittura. Non sarà fatta di metallo, ma la Olivetti Lettera 32 di Lucia Biagi (2009) – almeno esteticamente – non ha nulla da invidiare all’originale, sbarcata sul mercato nel lontano 1963. Contaminare i registri e prendere spunto dal passato, d’altronde, è una prerogativa del design. Come scriveva il grande Bruno Munari: «L’arte è ricerca continua, assimilazione delle esperienze passate, aggiunta di esperienze nuove, nella forma, nel contenuto, nella materia, nella tecnica, nei mezzi».

L'articolo completo nel numero di luglio-agosto del «Messaggero di sant'Antonio» e nella versione digitale della rivista.

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017

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