Sotto il mantello la salvezza
Le braccia aperte e l’orlo del mantello che scivola tra le dita. La sagoma imponente e l’aiuola di fedeli che alle sue pendici sembrano tante fragili miniature in cerca di riparo. Che porti la corona o l’aureola, che vesta abiti broccati o grossolane tuniche cremisi, la Madonna della Misericordia è una delle iconografie più diffuse e paradossalmente meno conosciute dell’arte sacra. Un monito alla fede e un simbolo di fratellanza che, specie in quest’Anno santo dedicato alla Misericordia, vale la pena approfondire. Lo si può fare partendo da Milano, dove il Museo diocesano ospita, fino al 20 novembre, una Madonna della Misericordia ritratta da Antonio da Fabriano nel 1470. Prestata dall’Istituto Toniolo e fresca di restauro, l’opera dipinta a olio e tempera su tavola nasce in realtà come stendardo da esibire durante le processioni sacre. All’epoca, infatti, gonfaloni devozionali, come pure ancone votive e pale d’altare, sono tra le opere d’arte sacra più gettonate dagli ordini religiosi (francescani e domenicani in primis) e dalle confraternite laiche che – cresciute a macchia d’olio specie in Toscana, Emilia Romagna, nelle Marche e nel Lazio – vedono nell’iconografia della Vergine ammantata un richiamo alla fratellanza sociale e un sostegno per affrontare carestie e pestilenze. Ecco dunque la Vergine maestosa come un albero e solida come la roccia, mentre apre le braccia in segno di accoglienza. Al suo fianco compaiono spesso santi (su tutti, san Sebastiano e san Giuseppe) e nuvole di angeli alati. Più in basso, a pregare per la salvezza della loro anima: uomini e donne, nobili e volgo, compresi i committenti dell’opera. Non c’è patrimonio o lignaggio che tenga. Agli occhi della Sancta Dei Genitrix tutti hanno diritto a una seconda chance. Perché la Misericordia è un bene prezioso che non si compra, ma viene concesso dall’alto. Di questo avviso è anche Piero della Francesca, quando nel 1464 – su commissione della Confraternita della Misericordia di Sansepolcro (AR) – realizza un grandioso Polittico della Misericordia (ventitré tavole assemblate a formare una superficie di 168×91 centimetri), immortalandosi egli stesso tra i supplici. La vivacità cromatica, l’armonia delle forme e il minuzioso studio dei panneggi eseguito dal pittore aretino valgono di certo un viaggio a Forlì, dove il Polittico, ospite dei Musei San Domenico, resterà esposto fino al 26 giugno, nell’ambito della mostra «Piero della Francesca. Indagine su un mito», salvo poi fare ritorno al Museo civico di Sansepolcro. Come Antonio da Fabriano e Piero della Francesca, sono tanti gli artisti più o meno noti che, nel corso dei secoli, si confrontano con l’immagine della Madonna della Misericordia. Pensiamo a Lippo Memmi (la sua Madonna della Misericordia del 1320 si può ammirare nel Duomo di Orvieto), Simone Martini (1305-1310, Pinacoteca nazionale di Siena), Domenico Ghirlandaio (1472, chiesa di Ognissanti a Firenze), Luca Signorelli (1490, Museo diocesano di Pienza). Nel 1375 Barnaba da Modena realizza una «versione alternativa» per la chiesa di Santa Maria dei Servi a Genova. Da semplice coprispalle con cappuccio (il maphorion della tradizione bizantina), il manto della Madonna diventa uno schermo contro i dardi che, scagliati dagli angeli tutt’intorno, si piegano al contatto con la veste sacra. Ogni freccia simboleggia le avversità con cui l’essere umano deve fare i conti. Su tutte, l’epidemia di peste che – tra il XIV e il XV secolo – flagella l’Europa a fasi alterne. Non a caso, nel 1464 e nel 1472 Benedetto Bonfigli firma due Madonne della peste, oggi conservate nella chiesa di San Francesco al Prato a Perugia e nella chiesa parrocchiale di Corciano (PG). Pittura, ma anche scultura, incisione e miniatura: nel corso dei secoli non c’è forma d’arte che resti impassibile al fascino della Madonna della Misericordia. Già nel Duecento la Vierge au manteau compare sui primi sigilli dei cistercensi, spunta negli inventari e adorna le matricole (documenti giuridici istitutivi di società) sottoforma di capolettera. Basti vedere quella abbozzata da Lando di Antonio in apertura dell’inventario dell’Ospedale della compagnia di Santa Maria delle Laudi (1329), oggi custodita nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. Al di là del puro esercizio stilistico, però, l’iconografia della Vergine ammantata vanta radici ben più profonde. Siamo nel X secolo quando la Madonna, apparsa a sant’Andrea il folle nel santuario di Blancherne a Costantinopoli, sormonta col suo coprispalle uno stuolo di fedeli. Quattrocento anni dopo è la voce di Maria, apparsa stavolta a santa Brigida di Svezia, a confermare il valore del proprio indumento. «Il mio manto ampio e prezioso è la mia Misericordia, perché misericordiosa mi rese la Misericordia del mio Figlio. Vieni dunque, figlia mia, e riparati sotto il mio manto». Madre per eccellenza, la Vergine svolge da sempre nell’immaginario collettivo una funzione protettiva e mediatrice tra uomo e Dio. «Con Maria l’Eterno sposa la storia, nell’alleanza tra l’umano e il divino, fra la terra e il cielo – scrive Paolo Biscottini, direttore del Museo diocesano di Milano, nell’introduzione del catalogo Madonna della Misericordia (Scalpendi editore) –. Così ci appare come luogo di un mistero profondo, di cui è protagonista e testimone». Ma questo, con buona pace degli studiosi, in fondo lo sapevamo già. L’abbiamo intuito fin da piccoli, ripetendo a memoria una semplice preghierina che, in realtà, è il più antico troparion mariano. In latino, il breve componimento ritmico (III secolo) suona più o meno così: «Sub tuum praesidium confúgimus, Sancta Dei Génitrix; / nostras deprecatiónes ne despícias in necessitátibus, / sed a perículis cunctis líbera nos semper, / Virgo gloriósa ed benedícta» (Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio; non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta).