Con amore e giustizia
«Caro direttore, sono una ragazza cui piace frequentare la chiesa. Ultimamente non si fa altro che parlare della Misericordia, non che il fatto mi dispiaccia, anzi lo trovo un giusto modo per avvicinarci al Sacramento del perdono. Qualcosa però mi turba, cioè l’uso e l’abuso che si sta facendo di questo vocabolo, “Misericordia”, oggi più che mai sulla bocca di tutti. Non se ne starà dando una cattiva interpretazione? Spesso, in qualsiasi ambiente mi trovi, mi sento dire: “Tu vai in chiesa perciò dovresti avere Misericordia”, come se quasi io dovessi sopportare qualsiasi tipo d’insulto, angheria e prepotenza, solo per il semplice fatto di andare in chiesa, senza che nessuno mi chieda perdono o senza poter far capire all’altro che sue parole o suoi comportamenti possono ferirmi. Prima non ci davo peso, adesso me lo sento ripetere spesso, come se io non potessi mai sbagliare o non potessi mai difendermi. A volte cerco di spiegare che vado in chiesa non perché sono perfetta, ma per la volontà di migliorare i miei mille difetti.
Ma nessuno mi dà ascolto, poiché è più facile puntare il dito e dire: “Tu vai in chiesa ma non usi la Misericordia che ci insegna papa Francesco”. La mia è una piccola critica, poiché vorrei che i preti e – perché no? – anche i media, spiegassero il significato più profondo di questo Giubileo».
Veronica
Cara Veronica, hai ragione: il rischio di capirci poco o di inflazionare la parola «misericordia», e quindi di banalizzarla, è reale. Ma, ci direbbe forse papa Francesco con in mano la Bibbia, è un rischio che dobbiamo correre. Perché la misericordia è una faccenda divina maledettamente seria. Che è come dire che il difetto è già nel manico. E cioè dipende dalla stessa ambiguità con cui nella Sacra Scrittura se ne parla a proposito di Dio, che di volta in volta viene descritto come misericordioso o come giusto, con conseguenze operative nei nostri confronti evidentemente diverse nell’uno e nell’altro caso. È come se Dio stesso non riuscisse a decidersi tra l’una e l’altra. O, forse, cercando di risolvere l’altra, la giustizia, nell’una, la misericordia: una giustizia che è misericordia! I nostri fratelli ebrei risolvono la questione da par loro, raccontando che Dio, che solitamente siede sul trono della giustizia, al momento di giudicare l’uomo si sposta sul trono della misericordia. Se invece ne hai la possibilità, prova a rileggerti l’enciclica di Giovanni Paolo II, Dives in misericordia (1980), dove tra l’altro c’è scritto: «Dobbiamo cercare le radici vivificanti e le ragioni intime di questo rapporto (tra giustizia e misericordia) risalendo al “principio”, nel mistero stesso della creazione. E già nel contesto dell’antica Alleanza esse preannunciano la piena rivelazione di Dio, che “è amore”» (n. 4).
Non è detto che anche a noi riesca di tenere così unite giustizia e misericordia, e forse non è neppure corretto farlo (noto però che in questo periodo, per esempio, c’è tutta una riflessione nuova attorno al carcere e al suo senso). Ma certamente misericordia non è semplicemente « volemose bene ». Non ha a che fare solo con il sacramento della confessione. Non è ingoiare tutto «per carità». Non fa sconti all’ingiustizia. Non è solo data, ma anche invocata e ricevuta, e diventa poi impegno. Soprattutto non è essere perfetti già in partenza: perché misericordia è appunto promessa e futuro. Non ci appartiene, è un dono di Dio, il Misericordioso (così lo invocano ebrei, cristiani e musulmani). È uno stile di vita; il tentativo, cioè, di avvicinarsi il più possibile al cuore di Dio: «Amore e giustizia io voglio cantare» (Sal 101,1). Di cui sant’Antonio commenta: com’è vero ciò che si canta in questo salmo (Annunciazione II della B.V. Maria 21)!
Lettere al Direttore, scrivere a: redazione@santantonio.org