I corpi dei santi: toccare la fede
Che cos’hanno in comune sant’Antonio di Padova e i suoi «colleghi» Pio da Pietrelcina, Leopoldo Mandic´, Giovanni Bosco, Maria Goretti, Teresa di Lisieux, Gabriele dell’Addolorata? La santità, certo, la qualifica di intercessori potenti presso il Padre, ma anche l’essere stati negli ultimi anni al centro di un fenomeno particolare dal sapore antico: l’ostensione e la peregrinazione delle loro spoglie mortali. In Basilica del Santo, meta costante di centinaia di migliaia di fedeli ogni anno, ancora con emozione si ripensa all’ostensione del corpo di Antonio, quando in appena 80 ore – dal 15 al 20 febbraio 2010 – sfilarono oltre 200 mila persone, all’incirca 2.500 l’ora. Grossomodo negli stessi giorni di febbraio di sei anni dopo, direttamente papa Francesco ha chiamato a sé dal Sud (San Giovanni Rotondo) e dal Nord (Padova) altri due francescani santi, Pio e Leopoldo, per mettere sotto la loro protezione il Giubileo e indicarli ai missionari della misericordia come modelli da seguire, trasparenza del perdono di Dio. E anche a Roma la folla di pellegrini non si è fatta attendere, per un gesto di devozione e di preghiera che ha coinvolto migliaia di italiani e non solo. Sono eventi di popolo, ma poi chiunque vi partecipi ne serba un ricordo personale, grato perlopiù, a un tempo intimo e comunitario. Tutto lineare, quindi, tutto semplice e immediato? Non esattamente. Pur nella sua straordinarietà, l’ostensione dei corpi santi appare «normale» ad alcuni, ambigua ad altri, provocatoria, da guardare con sospetto e scetticismo. Di certo dà da pensare, sia dentro che fuori la Chiesa. Ai tempi della virtualità e del disincarnato, dell’indistinto e della globalizzazione, come si colloca un fenomeno quale la venerazione delle reliquie? Abbiamo girato la domanda a due attenti osservatori delle dinamiche sociali ed ecclesiali, già noti ai nostri lettori: don Armando Matteo, teologo e docente di teologia fondamentale alla Pontificia università Urbaniana, e fra Luciano Bertazzo, direttore del Centro studi antoniani, dal 1999 al 2005 alla guida del «Messaggero». «È proprio il grande successo di questi eventi – segnala fra Luciano – a suscitare in alcuni stupore, in altri addirittura rabbia. Ho colto la perplessità di parecchie persone, soprattutto intellettuali. In realtà, l’ostensione e la peregrinazione delle reliquie viene incontro e sollecita domande ininterrottamente presenti nella Chiesa. Si chiede di toccare, vedere, esserci, di instaurare un rapporto tangibile e diretto con la santità e la trascendenza, tutte esigenze che la cosiddetta religione dotta non è in grado di soddisfare». Due sembrano essere le principali «accuse» in campo: la devozione sarebbe un’esperienza vecchia, fuori tempo massimo e dai contorni magico superstiziosi, fuorvianti rispetto alla «vera fede». Sull’argomento papa Francesco, sulla scia del beato Paolo VI, si è espresso senza tentennamenti nell’Evangelii gaudium, dove sostiene che la spiritualità popolare «non è vuota di contenuti, bensì li scopre e li esprime più mediante la via simbolica che con l’uso della ragione strumentale, e nell’atto di fede accentua maggiormente il credere in Deum che il credere Deum. È “un modo legittimo di vivere la fede, un modo di sentirsi parte della Chiesa”. (…) Per capire questa realtà c’è bisogno di avvicinarsi ad essa con lo sguardo del Buon Pastore, che non cerca di giudicare, ma di amare» (124-125). Devozione contemporanea «È ben comprensibile che in tanti rimangano sconcertati – interviene don Armando Matteo –, perché, a prima vista, società postmoderna e religiosità popolare sembrano escludersi a vicenda. I sociologi parlano di “eclissi del sacro”: sarebbe imbarazzante sostenerlo di fronte alle folle di pellegrini richiamate dai santi o dal Giubileo! Del resto, la mentalità postmoderna azzera la prospettiva metafisica, mette in pensione ogni morale esterna al soggetto, e soprattutto esclude ogni riferimento comunitario interpersonale, tanto da mettere in crisi la religiosità, in particolare quella cattolica. E comunque, la rottura della trasmissione della fede all’interno della tradizione occidentale, con il divenire sostanzialmente estraneo del cristianesimo nel vissuto delle nuove generazioni, è un fatto tangibile». Ma allora, pur guardando alla devozione, come invita a fare il Papa, «con lo sguardo del Buon Pastore», come si può ricollocarla all’interno del tempo presente, dandole la dignità che merita? Il fatto è che solo superficialmente società secolarizzata e spiritualità popolare sono mondi impermeabili. Sostiene don Armando: «Le due realtà entrano in contatto nel fenomeno più centrale della nostra epoca, ovvero l’emergere della soggettività nella sua concreta singolarità, individualità e libertà. Il soggetto postmoderno rifiuta ogni mediazione: della teologia, della morale, pure della Chiesa in qualche misura. Andare in pellegrinaggio a esprimere la propria devozione nei confronti di un santo è un atto molto personale, tant’è che addirittura spesso queste persone, poi, non frequentano gli ambienti ordinari della parrocchia». Viene da chiedersi allora perché, nonostante tutto, ai santi si accostino. «La forza di queste testimonianze di santità – riflette il teologo Matteo – sta nel fatto che sono una sorta di Vangelo senza mediazioni, allo stato puro, in presa diretta. È il loro fascino senza tempo». Festa, preghiera e precarietà I punti di forza dell’esperienza del pellegrinaggio non si esauriscono qui. Don Armando ne segnala altri due: il senso della festa – «che popolo gioioso era quello che ha mandato in tilt Roma a inizio febbraio!» – e la preghiera. «Nella sua radice elementare, la preghiera è invito a fermarsi. È il verbo ebraico shabat, sedersi, guardare un po’ alla propria vita, riconoscerla con le sue ferite, con le sue potenzialità ancora inespresse, infine tornare ad abbracciarla e riprendere il cammino. Questa esperienza del fermarsi è invece molto censurata dalla cultura contemporanea, che dice: non c’è tempo da perdere, dobbiamo essere connessi a tutte le ore, con i negozi aperti senza sosta, sempre in viaggio… In questo movimento perpetuo alla fine non sai più se stai vivendo tu o un altro al posto tuo. Ecco allora una parola che ha la stessa radice di preghiera: è “precarietà”, che la cultura dominante tende a esorcizzare, perché dobbiamo essere sempre efficienti, giovani, consumatori, gaudenti… Nell’esperienza del pellegrinaggio accade questo tratto di riconoscimento della precarietà, che è salvifico. Sant’Antonio, Pio, Leopoldo, sono tutte figure che hanno mostrato un grande tratto di umanità, di precarietà e di rinvio costante a Dio». Tra le precarietà con le quali si fa i conti avvicinando i corpi santi, va da sé, c’è la finitudine, la morte. Il fedele rende onore a un suo fratello che ce l’ha fatta, che ha combattuto la buona battaglia, morto ma vivente, forse ultimo in terra ma primo in cielo, e perciò tramite affidabile di invocazioni e richieste di guarigione, dalle ferite dell’anima e del corpo. Riprende don Armando: «Incontrare i corpi santi significa riaccendere dentro di noi la consapevolezza che siamo destinati a una vita oltre la morte: è il punto di partenza della nostra fede. Abbiamo la certezza che la vita è il primo tempo, come diceva Lucio Dalla. Il Signore è risorto, è veramente Dio, e quindi ciò che ci ha consegnato nella sua esperienza terrena è la chiave d’accesso per una vita pienamente felice».
A tanti anni dalla loro dipartita, questi santi continuano a parlare, non hanno assolutamente terminato la loro opera, anzi. Continuano a toccare i cuori di tanti e a lasciarsi toccare dalle preghiere. Proprio la questione del «toccare» non è affatto secondaria. E non lo era nemmeno per Cristo, come riflette fra Luciano Bertazzo: «Nel Vangelo, ogni volta che deve guarire qualcuno, Gesù tocca o si lascia toccare. Rompendo i tabù del tempo, tocca una donna malata, la suocera di Pietro, e addirittura tocca un morto, il figlio della vedova di Naim. Inaudito, perché era il più stringente dei tabù! Ma Gesù anche si lascia toccare il lembo del mantello, e questo è sufficiente all’emorroissa per essere sanata. Si arriva fino al “Noli me tangere”, non mi toccare, rivolto dal Risorto a Maria Maddalena, un modo per farle superare quella condizione umana che Gesù ormai non ha più». Il dialogo, però, non si chiude con l’imperativo negativo: Maria è invitata a tornare dagli apostoli per annunciare loro il lieto messaggio della risurrezione e dell’ascensione (Gv 20,17). Da ogni pellegrinaggio, raggiunta la meta, c’è sempre un ritorno: si va per rientrare, nella propria quotidianità e in se stessi, uguali ma diversi, un po’ più vicini a quel cielo di cui siamo indissolubilmente impastati.