Il pericoloso silenzio delle mafie
Ci sono giorni che restano scolpiti nella memoria. Come il 23 maggio 1992. In molti, infatti, ricordiamo esattamente dov’eravamo in quel tardo pomeriggio in cui si diffuse l’atroce notizia: una bomba aveva ucciso il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Un ordigno esplosivo, che aveva sprigionato una potenza pari a 500 chilogrammi di tritolo, aveva fatto saltare alle 17.57 un tratto di autostrada nei pressi di Capaci (Palermo), proprio nel momento in cui transitavano le tre Fiat Croma blindate del giudice e della scorta.
Fu come se un sudario fosse calato all’improvviso sulle nostre vite. Lo sapevamo, certo, che Falcone rischiava quotidianamente la sua vita. Sapevamo delle minacce ricevute, degli attentati sventati, della vita blindata. Ma quella notizia provocò ugualmente uno choc: in molti allora pensammo che la mafia aveva vinto. Che era lei la più forte. Ma poi la reazione dei siciliani non si fece attendere: in tanti, soprattutto tra i giovani, scesero per le strade nei giorni seguenti e per settimane e poi, ancora, a luglio, dopo l’uccisione di Paolo Borsellino. Tutti insieme per gridare «no alla mafia».
Oggi, a distanza di trent’anni, quel grido, pur non spegnendosi del tutto, si è di certo molto affievolito. Anche giornali e tv di mafia si occupano molto meno, soprattutto perché le azioni eclatanti, gli omicidi, gli attentati non ci sono più. Che cosa sta succedendo: le mafie sono forse scomparse? No, anzi, agiscono più di prima, ma in modo subdolo, nel silenzio che le rende indisturbate. Forse, allora, questo è il momento di alzare ancor di più la soglia dell’attenzione. Lo sostiene Nicola Gratteri, calabrese, che da trent’anni proprio in Calabria (dove è procuratore della Repubblica di Catanzaro) combatte in prima linea il crimine organizzato.
Msa. Dottor Gratteri, in occasione dell’inaugurazione della mostra per i 30 anni della DIA, a Catanzaro lo scorso gennaio, lei ha lanciato un allarme: «È importante guardare queste immagini per conoscere la storia recente di questo Paese, per non dimenticare e perché questo serva a far riflettere i ragazzi. E soprattutto, guardando queste immagini, vorrei che il percorso mentale di questi ragazzi fosse quello di non farsi prendere in giro degli adulti, adulti che non parlano più di contrasto alle mafie». Che cosa sta succedendo? Perché non si parla più di mafie?
Gratteri. Forse perché la lotta alle mafie non viene considerata una priorità in questo Paese. C’è gente che si è rassegnata a convivere con le mafie che dalla seconda metà dell’Ottocento condizionano la nostra democrazia e la nostra libertà. Ora che non hanno sempre bisogno di sparare, le mafie riescono a passare ancora di più inosservate.
Quest’anno ricorrono i 30 anni dell’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In molti sostengono che quegli assassinii furono possibili perché i due magistrati vennero lasciati soli. Lei, che ha anche scritto un libro per ragazzi nel quale ripercorre le due vicende (Non chiamateli eroi. Falcone, Borsellino e altre storie di lotte alle mafie, Mondadori, 2021), che cosa pensa a riguardo?
Andrebbero ricordate le parole di Giovanni Falcone, il quale sosteneva che la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere. Sono parole amare che devono farci riflettere. Vorrei però sottolineare che a distanza di 30 anni da quelle terribili stragi non siamo ancora riusciti a capire e a scoprire chi ha sottratto l’agenda di Paolo Borsellino dal luogo del massacro di Via D’Amelio. Ci sono ancora tante cose da chiarire, ma anche tante cose da fare per combattere le mafie e chi le sostiene.
Quanto sono profondi oggi i legami tra mafia e politica?
Senza le relazioni esterne, le mafie sarebbero robetta. Le avremmo già sconfitte. I rapporti con sfere della politica, dell’economia, della finanzia, del mondo delle professioni e della società in generale costituiscono l’ossatura del potere mafioso.
Lei ha spiegato che uno snodo centrale nello sviluppo della ’ndrangheta è stata la creazione, tra il 1969 e il 1970, della cosiddetta «Santa». Vale a dire?
Alla fine degli anni Sessanta, nella ’ndrangheta è stato introdotto un nuovo rango, quello del «santista» che ha consentito la doppia affiliazione: alla ’ndrangheta e alle logge deviate della massoneria. Da quel momento in poi, l’élite della ’ndrangheta ha trovato sempre più spazio nei consessi dove si gestiscono denaro e potere.
Recentemente, ha sottolineato che le mafie hanno approfittato anche della pandemia e che oggi si stanno preparando a prendere i soldi che arriveranno dal PNRR.
In Italia ci sono sempre state una politica e una economia della catastrofe. Le mafie hanno sempre trasformato le crisi in opportunità. Durante la pandemia hanno rilevato molte aziende in difficoltà. Cercheranno di mettere le mani sui fondi della ricostruzione e quindi del PNRR. Bisognerà fare di tutto per impedirglielo.
Qual è la strategia che oggi, secondo lei, potrebbe assestare un colpo mortale alle mafie?
La strategia che si è dimostrata più efficace è quella dell’impoverimento delle mafie, attraverso il sequestro e la confisca dei beni illegalmente conseguiti. Bisogna però anche prevenire il fenomeno, investire nella scuola, liberare la gente dalla paura e dal bisogno. Le manette e le sentenze da sole non bastano.
Molte delle sue indagini hanno posto in evidenza come la ’ndrangheta e le mafie in genere siano da decenni radicate al Nord. Ha anche descritto minuziosamente in un suo recente volume (Complici e colpevoli, con Antonio Nicaso, Mondadori) le dinamiche che hanno favorito questa «migrazione». In quali ambiti principalmente ciò è avvenuto e avviene, e come?
Al Nord le mafie sono state legittimate, come è successo al Sud, da politici e imprenditori che hanno agito secondo logiche di convenienza. Bisogna spazzare via i vecchi paradigmi del contagio e analizzare l’importanza della reciprocità funzionale. Al Nord le mafie si sono trasformate in agenzia di servizi e ci sono stati imprenditori, professionisti e politici che nel frequentarle non si sono fatti alcuno scrupolo.
Nel 2020, durante un’audizione alla Commissione parlamentare antimafia, parlando del suo lavoro di magistrato, ha detto: «Io sono innamorato di questo lavoro, sono un tossicodipendente da questo lavoro. Ma se non pensassi che possiamo cambiare, farei un altro lavoro». Cos’è che l’ha fatta innamorare di questa professione?
Da ragazzino, ho visto i figli dei mafiosi comportarsi da bulli davanti alle scuole. Sono cresciuto con l’idea di dover fare qualcosa per aiutare chi per paura piegava la testa. Amo questa terra e finora ho avuto la fortuna di lavorare nella regione in cui sono nato e cresciuto.
Lei vive da oltre trent’anni sotto scorta per le sue indagini. Come si può resistere in una vita blindata?
Non è facile, ma non ci posso fare nulla. Nonostante la scorta, mi sento libero, perché faccio un lavoro che mi piace e che mi consente di dire sempre quello che penso.
È risaputo il suo grande impegno a favore dei giovani per la lotta alla diffusione di una cultura «mafiosa». Quanto è importante sensibilizzare ed educare le giovani generazioni in tale ambito?
È importantissimo. Oltre a dare la caccia ai mafiosi, è importante bonificare i territori in cui maggiormente si diffonde la cultura mafiosa. La cultura, la conoscenza, la consapevolezza contribuiscono a distruggere il terreno sui cui la malapianta cresce e si diffonde. Uno scrittore siciliano diceva che per sconfiggere le mafie c’è bisogno di un esercito di maestri elementari. Non ci sarebbe da aggiungere altro, se non di investire ancora di più nella scuola, nelle infrastrutture scolastiche, per rendere piacevole e confortevole studiare e imparare.
In molti casi tra i mafiosi sono state riscontrate forme di religiosità di tipo tradizionale, che spesso sono state denunciate anche dalla stessa Chiesa come inaccettabili. In base alla sua esperienza, come possono convivere mafia e religione? Quali giustificazioni trovano?
Non trovano nessuna giustificazione. Ma è risaputo che le mafie per una forma di parassitismo culturale sfruttano da sempre miti e riti, come quelli della cavalleria e della religione cattolica. La devozione verso i santi è anche uno strumento per ottenere consenso sociale, così come i riti che si ispirano al battesimo servono per creare senso di identità e di appartenenza.
Come cittadini che cosa possiamo fare, nel nostro piccolo, nel giorno per giorno, per lottare contro la cultura mafiosa?
Ciascuno deve fare il proprio dovere, rammentando che quello che non è nostro è di tutti. E bisogna tutelarlo, proteggerlo. Si chiama bene comune.
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