Il sognatore batte il calcolatore
Era il 7 luglio 1535, quando nella Torre di Londra veniva decapitato san Tommaso Moro, umanista e politico, cancelliere di re Enrico VIII, uomo integerrimo e tenace sul piano della coerenza politica, proclamato patrono dei politici e dei governanti da Giovanni Paolo II. Proprio quest’anno ricorrono i 500 anni di Utopia (1516-2016), una delle sue opere più famose e attuali, uscita poco dopo Il Principe di Machiavelli, quasi a fargli da contraltare, visto che le riflessioni politiche dell’uno e dell’altro autore sono di segno opposto. Ancor oggi, di fatto, i politici si chiedono a quali linee-guida obbedire: se al realismo egoistico del calcolatore o al coraggio del sognatore.
La festa di san Tommaso Moro ha aperto l’estate (22 giugno), insieme a un’altra ricorrenza: il martirio di Giovanni Fisher, vescovo di Rochester, avvenuto appunto il 22 giugno 1535, sempre nella Torre di Londra, pochi giorni prima di quello di Tommaso Moro. Un laico e un cardinale. Un politico e un pastore, accomunati dalla stessa sorte, per aver rincorso un sogno per l’umanità.
Per scoprire l’attualità di Utopia, partiamo dall’etimologia della parola, coniata dallo stesso Moro. Utopia è composta dal suffisso greco ou che significa non e dal sostantivo topos che sta per luogo: letteralmente quindi l’utopia è un non-luogo. Per Tommaso invece è un luogo ideale ma realizzabile, «un’isola riformata e progettata», un modello di società giusta e felice, basata su alcuni fondamenti che il santo inglese elenca magistralmente, partendo dal più importante: «Il fondamento essenziale di una società sana è nell’equa spartizione dei beni». È necessario di conseguenza che «tutto appartenga a tutti». Perché nel momento in cui la politica non riesce ad assicurare pane e lavoro equamente «a nulla poi servirà punire quei ladri che la ricchezza di pochi creerà». Moro qui pronuncia una frase che andrebbe scolpita sulla bandiera del nostro Paese, come un monito: «Così facilmente s’acquisterebbe il vivere, se la bramosia di accumulare denari non impoverisse gli altri». Perché dove c’è condivisione e solidarietà, lì attecchisce una società giusta e pacifica.
Sogno di poter realizzare a breve un evento su Tommaso Moro nella mia diocesi, forse ad Altilia, di cui vi ho già parlato. Mi piacerebbe, infatti, presentare la grandezza di questo santo, che ho sempre avuto a cuore per le sue virtù e qualità umane e che ha ancora molto da dire al nostro tempo. Stupisce, per esempio, la sua proposta, già formulata 500 anni fa, di lavorare poco, per lavorare tutti. L’utopia di Moro è di fatto la formula dell’umanità fraterna e unita. Dove nessuno è escluso. Impegnarsi a costruire questa utopia in prima persona significa sottrarsi alla disperazione, alla noia, alla desertificazione della coscienza, rendendo onore nel contempo a chi è morto martire per difendere questi valori. Il nostro impegno sarà un monito per la politica di oggi, che ancora tarda a mettere al centro il bene collettivo.
Tornando alla parola «utopia» nel senso letterale del termine, mi preme dire che il «non luogo» per eccellenza è il nostro cuore. Solo lì può nascere la città ideale, che vogliamo edificare per tutti. Ed è ancora un classico, stavolta più recente, a darci la chiave per un nuovo domani. Scrive Antoine de Saint-Exupéry nel Piccolo Principe: «Se vuoi costruire una nave non chiamare la gente che procura il legno, che prepara gli attrezzi necessari, non distribuire compiti, non organizzare il lavoro. Prima invece sveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà svegliata in loro questa sete, gli uomini si metteranno subito al lavoro per costruire la nave». Senza desiderio non c’è conquista, senza sogno non c’è futuro. Machiavelli il manipolatore, sconfitto da Moro il sognatore.