La clinica della pellicola
Marianna ha «accarezzato» Charlot, e Celine gli ha tolto i segni e i graffi lasciati da tanta storia. Mentre i maghi del suono, come Gilles o Alessandro, hanno curato la voce inconfondibile di Anna Magnani o l’indimenticabile melodia del valzer de Il Gattopardo. Nel centro di Bologna, in quella che ancora un secolo fa era la Manifattura Tabacchi, ogni giorno (e perfino di notte) ottanta specialisti lavorano per restituire luce e bellezza ai capolavori del cinema di tutti i tempi: L’Immagine Ritrovata è un laboratorio di restauro cinematografico di altissimo livello, un unicum e un’eccellenza italiana che fa scuola nel mondo.
In questa clinica molto speciale sono stati trattati «pazienti» illustri, i film di Charlie Chaplin e Buster Keaton, le opere di Federico Fellini, da La dolce vita ad Amarcord, perle del Neorealismo come Roma città aperta di Roberto Rossellini e Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, ma anche Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene (1920), manifesto dell’Espressionismo tedesco, e Hiroshima mon amour di Alain Resnais (1959), pietra miliare della Nouvelle Vague francese. Ogni anno sono ben più di cento i film sottoposti a restauro, e per ciascuno viene applicato un procedimento accurato che può richiedere anche mesi di impegno: «Restaurare un film non è mai un semplice esercizio tecnico – spiega Davide Pozzi, direttore del laboratorio –. Bisogna essere consapevoli dell’opera che si ha di fronte e di come vada interpretata. Le tecnologie sono importanti, ma sono proprio le persone che fanno la differenza».
In principio fu Maciste
L’Immagine Ritrovata ha preso vita da una costola della famosa Cineteca di Bologna, punto di riferimento per studiosi e appassionati della settima arte: «Agli inizi degli anni ’90 proiettammo in piazza Maggiore Il monello di Chaplin, e avevamo a disposizione soltanto una copia molto deteriorata – ricorda Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca –. Ci chiedemmo se avessimo potuto far qualcosa per ottenere una migliore qualità». Nel 1992, dunque, si formò il primo nucleo di giovani che iniziò ad apprendere e applicare le tecniche di riparazione e conservazione dei film. Il debutto del neonato laboratorio fu con Maciste all’inferno di Guido Brignone (1926), un restauro effettuato a partire da due copie del film trovate in Danimarca e a San Paolo del Brasile.
Già, perché alla base di ogni restauro c’è una ricerca. Bisogna ricostruire l’albero genealogico del film, capire in quali archivi o collezioni possano essere conservate copie originali e magari il «negativo camera», ovvero la pellicola «madre» che era nella macchina durante le riprese. È una puntigliosa investigazione, dal momento che per ogni opera cinematografica possono esistere versioni differenti e copie in diverso stato di conservazione: il tempo passa e i materiali come il nitrato di cellulosa o il triacetato deperiscono, le pellicole perdono colore o sono danneggiate da strappi e rotture. Dunque, come si fa per un affresco di Michelangelo o per una tela di Giorgione, anche sui film bisogna operare con sapienza e mani di velluto.
«Per noi è un’emozione enorme aprire le scatole con le bobine» confida Marianna De Sanctis, responsabile del dipartimento di riparazione dei film. Ogni rullo viene esaminato fotogramma per fotogramma, per verificare le condizioni del supporto ed eventualmente ripristinare le perforazioni o sistemare i guasti. Occorrono pazienza, attenzione e delicatezza: «Poter toccare i primi film dei fratelli Lumière, gli albori del cinema, è stato per me un onore, ma anche una profonda responsabilità – aggiunge Marianna –. Ed è incredibile la possibilità di scoprire anche i trucchi che i registi di un tempo adottavano per creare effetti speciali direttamente in macchina».
Le bobine sistemate vengono poi collocate negli scanner che le traducono in formato digitale: per una scansione a 4K, la massima qualità, si viaggia alla velocità di un fotogramma al secondo e può servire anche un’intera settimana per «passare» l’intero film. Da qui inizia il processo di restauro digitale: davanti a una schiera di monitor, operatori dallo sguardo allenatissimo scorrono immagini e sequenze per cogliere ogni «corpo estraneo», puntini, segni, aloni di muffe, ed eliminarli con appositi software. Per pulire un film degli anni ’30 ci vogliono 1.800 ore di lavoro (di persone, non di computer). A questo si abbina la comparazione: «Mettere a confronto, anche nei dettagli, le diverse versioni del film è fondamentale – annota il direttore Pozzi –. È così che il restauro diventa veramente scientifico».
Potere artigiano
Anche la correzione del colore e il trattamento dell’audio e della colonna sonora richiedono particolare perizia, perché ogni scelta può rivelarsi soggettiva. Per questo, quando è possibile, il laboratorio cerca di coinvolgere coloro che hanno direttamente lavorato sul film, come il regista, il direttore della fotografia o l’assistente al montaggio. Giuseppe Tornatore, per esempio, ha accompagnato il restauro del suo Nuovo cinema Paradiso a partire dal negativo originale, correggendo la luce o il colore di alcune scene. «La sfida principale è sempre quella di restituire un’opera che sia fedele a come è stata vista la prima volta nelle sale – fa notare Marianna De Sanctis –. Anche se oggi le tecnologie ci consentirebbero di effettuare interventi che in passato non erano possibili, la nostra missione è di restaurare il film, non di migliorarlo». Quando tutte le operazioni sono completate, si realizza il mastering digitale del film «ritrovato», ma quasi sempre se ne fa anche una copia su pellicola, così dal digitale si torna all’analogico: infatti i dati si possono perdere e magari tra qualche anno certi supporti non si potranno più leggere (come è avvenuto per i floppy disc), mentre la pellicola «resta» come custode e testimone.
L’età media degli operatori de L’Immagine Ritrovata è inferiore ai 40 anni: è un mondo giovane che ha saputo accogliere e coltivare con entusiasmo questo nuovo ambito del restauro. A Bologna si tengono master e corsi di formazione per le «nuove leve», e l’interesse dei ragazzi è altissimo. Il laboratorio è divenuto una vera e propria impresa e, con i suoi restauri, è presente da anni nei principali festival internazionali. Lo scorso settembre alla Mostra del Cinema di Venezia sono state presentate le versioni rinnovate di Lo sceicco bianco di Fellini e Strategia del ragno di Bernardo Bertolucci, oltre a due «corti» iraniani, mentre in primavera a Cannes è stato portato anche il restauro dell’iconico Easy Rider di Dennis Hopper, a cinquant’anni dall’uscita.
A L’Immagine Ritrovata si sono rivolti anche Martin Scorsese, con la sua fondazione per la salvaguardia del patrimonio cinematografico, e le major di Hollywood, così come cineteche e collezioni. La grande esperienza acquisita dal centro bolognese è stata quindi portata anche all’estero, con la creazione di due laboratori «fratelli» a Hong Kong e a Parigi, proprio dove il cinema è nato. Anche oltre i confini, in questo lavoro resta comunque tutto il talento italiano e – come osserva Davide Pietrantoni, vicedirettore della Cineteca – «il carattere del saper fare, tra l’artigianato e l’opera d’arte, che è proprio del nostro Paese». Un talento da grande schermo di cui possiamo e dobbiamo andare orgogliosi.