La sartoria di Betty
Ha gli occhi a mandorla dei vietnamiti che ti sorridono furbi dietro gli occhiali, ma appena parla lo fa con un accento spudoratamente bresciano. Quando incontri Betty nessuno ti deve più spiegare che cosa si intenda per multiculturalismo. La sua non è una storia edificante di attivismo sociale nel senso più comunemente inteso: questa giovane donna determinata non ha un’associazione di volontariato, non gestisce centri di accoglienza e non milita di professione in alcuna causa nobile: ha solo un negozio di sartoria artigianale nel centro di Brescia. Eppure è da lì, con il gesto normalissimo di aprire e chiudere quella saracinesca, che Betty ha fatto partire la sua piccola rivoluzione.
Quando la vado a incontrare è appena cominciata la pausa pranzo, ma nessuna delle persone che lavorano nel suo negozio fa l’atto di uscire per andare a mangiare un panino nei dintorni. In mezzo ai vestiti appesi e agli accessori fatti a mano nella sartoria compare invece un tavolo con un’apparecchiatura semplice su cui la madre di Betty serve per tutti dei gustosi vegetali in zuppa e spaghetti di riso. Ci sono più sedie che commensali, perché «non si sa mai», mi dice Betty. «Qui lo sanno che pranziamo nel negozio e ogni tanto si aggiunge qualcuno anche all’ultimo momento, per questo mia madre prepara con abbondanza». Durante il pasto questa conviviale addizione accadrà, in effetti, più volte ed è stato facile per me capire il perché: il negozio di Betty ha qualcosa di speciale perché speciale è il modo in cui lei lo ha immaginato e lo conduce.
«Credo nelle donne e penso che debbano avere la possibilità di trovare un lavoro che le soddisfi anche dopo i 40 anni – spiega lei con una parlantina instancabile –. Credo però anche nell’equità di tutte le differenze e per questo lavora con noi Diego, che ha 20 anni e con la sindrome di Down ci dà la misura giusta della vita».
Misura. È questa la parola che Betty ripete più spesso, perché è il suo principale strumento di lavoro. Prendere le misure ai corpi delle persone è il primo gesto che una sarta impara a fare, ma Betty ormai è così brava che a volte il metro non le serve nemmeno più.
È così che l’ho conosciuta, del resto. Mi si è presentata davanti alla fine di un incontro pubblico e mi ha messo in mano un vestito. L’ho fatto su misura per te, mi ha detto entusiasta, e io ho riso. «Come può essere su misura se non mi hai mai vista prima?», ma aveva ragione: quando l’ho indossato era perfetto.
«Realizzo abiti su misura a distanza ed è quello il mio potere. Mi sento un po’ maga, perché con il mio potere riesco a soddisfare il diritto di ogni donna di indossare un capo su misura a un prezzo popolare, che la faccia sentire bene, non giudicata e soprattutto che non la escluda. Siamo sempre troppo basse, troppo grasse, troppo alte, troppo vecchie, troppo particolari, troppo noi. Ci accontentiamo di ciò che gli altri ci dicono ci stia bene e siamo indotte a indossare qualcosa che altri hanno scelto per noi. Ma io voglio la rivoluzione, voglio che le donne possano indossare un tessuto o un colore anche se la moda l’ha escluso quella stagione. Voglio che siano loro a scegliere, ad avere possibilità infinite. Voglio che si possano vedere belle. La bellezza è necessaria, come la cultura, come i libri».
A cucire Betty ha imparato da sua madre, una profuga vietnamita arrivata in Italia negli anni dei boat people, la terribile diaspora che dal Vietnam fece imbarcare migliaia di persone sulle carrette del mare verso il nulla, nella speranza di intercettare le rotte delle grandi navi straniere e potersi salvare. Sembra un secolo fa, eppure era solo la fine degli anni ’70, quando il senso della tragedia umana di una migrazione di massa era così forte che il governo italiano inviò gli incrociatori Vittorio Veneto e Andrea Doria nel Sud-est asiatico per una missione umanitaria in cui vennero salvate 891 persone.
A lasciare il Vietnam nell’arco di dieci anni furono in 800 mila e tra loro c’erano anche i genitori di Betty, oggi cittadini italiani come tutti i loro figli. Le persone che lavorano nel negozio di Betty sono italiane e il fatto che il loro stipendio dipenda dal genio di questa piccola donna di origini lontane è un elemento di contraddizione non piccolo in un Nord Italia dove in questi anni la retorica dello straniero che ci ruba il lavoro ha attecchito in tutti gli strati sociali.
«È vero che l’aria si è fatta più pesante in quest’ultimo periodo, ma bisogna resistere e il lavoro fatto bene è una buona risposta ai veleni che vorrebbero intossicare la società. Vesto donne dai 20 agli 80 anni, anche quelle che hanno limitazioni fisiche dovute a un handicap, e trovo loro soluzioni. Molti credono che siamo una onlus senza scopo di lucro, oppure vedono Diego e pensano che lavori qui per qualche progetto di inserimento dei disabili, ma non è così: ha la sindrome di Down, ma è un lavoratore come noi e questa attività è imprenditoriale. La mia sfida è dimostrare che un’attività commerciale fatta in modo etico con criteri di inclusività non solo non è un business minore, ma porta un valore aggiunto che alla fine si concretizza anche nel bilancio».
È con questo spirito che oggi il negozio nel centro di Brescia funziona come un porto aperto, dove la stoffa e la visione di una sola donna svolgono con grazia l’inedito compito politico di restituire alle persone il diritto di sentirsi «giuste».
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