L'arte mimetica di Liu Bolin
Una tettoia fatiscente che pende da un lato, muretti divelti e mattoni sparsi qua e là. Al centro della scena, una sagoma trasparente si confonde coi calcinacci. Braccia lungo i fianchi, testa dritta e occhi serrati, questo spettro è in realtà un artista tutt’altro che invisibile nel panorama culturale contemporaneo. Se ha scelto di farsi immortalare tra quel che resta del suo studio, nel quartiere Suojia a nord est di Pechino, è proprio per denunciare chi l’ha ridotto così. Siamo nel 2005 quando il governo cinese demolisce l’intera area residenziale con l’intento di cambiarne destinazione. Una prassi consolidata nel Paese. Ma distruggere il passato significa anche pregiudicare le proprie radici. E questo a Liu Bolin, classe ’73, ex studente all’Accademia centrale d’arte applicata, proprio non va giù.
La decisione di immergersi nella materia per farne parte diventa, da qui in poi, il suo marchio di fabbrica. Un modo come un altro per parlare di legalità, bellezza, globalizzazione e, nel contempo, esprimere i propri sentimenti. «Mimetizzandomi come artista riesco a scaricare le mie emozioni e a proteggere me stesso» racconta la voce sottotitolata di Bolin. Sullo schermo davanti a noi il performer, ripreso in un documentario, è intento a scrostarsi dal viso una maschera di colore. Una delle tante «indossate» per dar vita a quei sorprendenti mix di fotografia, installazione e pittura quali sono le sue opere. Ci troviamo a Roma, nel Complesso del Vittoriano, a un tiro di schioppo dai Fori imperiali. Proprio qui, nel cuore della Capitale, è allestita fino all’1 luglio la prima personale italiana di Liu Bolin: oltre settanta scatti suddivisi in sette sezioni, abbinati a video e costumi di scena. Sì, perché proprio di arte spettacolare in fondo si tratta.
L’ingresso dall’Ala Brasini è un sipario di velluto incorniciato da scaffali di libri. Un breve corridoio ci traghetta verso la prima sala. Alle pareti si succedono bandiere giganti: c’è quella cinese, americana, europea... E poi quella che le riassume un po’ tutte, in miniatura, e le accosta a vari simboli, come in una sorta di coperta patchwork dal titolo sibillino: Il futuro (2015). Stropicciamo gli occhi davanti a questo grande stendardo ed ecco stagliarsi al centro, tra i verdi, i rossi e i blu, il profilo del nostro «eroe» mimetizzato come un camaleonte tra la croce greca, la mezzaluna turca, l’emblema dell’uguaglianza e quello della povertà. A differenza del rettile dalla lingua lunga, però, Liu Bolin non si nasconde per proteggersi.
«Mentre l’umanità si gode i frutti del proprio progresso, scava la propria tomba con la sua ingordigia» scrive l’artista a margine della mostra. Tra guerre, sviluppo economico incontrollato e paradossi, è ora che l’uomo prenda una posizione. E Liu Bolin lo fa diventando tutt’uno con ciò che fotografa e gli sta a cuore. Sia esso il suo studio di Pechino, la Muraglia cinese, il Ponte di Rialto a Venezia, una cabina del telefono londinese o un barcone che trasporta immigrati. «Ogni persona sceglie la propria strada nel venire a contatto con il mondo esterno – continua l’artista –. Io scelgo di fondermi con l’ambiente». Se non è una presa di posizione questa…
Ma torniamo al Vittoriano. Basta uno sguardo al titolo della prima sezione – Hiding in the city, Nascondersi nella città – e già respiriamo l’aria di Pechino, la ribellione nei confronti dell’autorità cinese e il desiderio di trovare «tanti punti in comune con le vite degli altri». Immerso anima e corpo nel suo Paese natale, Liu Bolin è incontenibile. Tutt’uno con Piazza Tienanmen (2006), con la Porta Rossa (2012) e il Muro dei Nove Dragoni (2006), il performer si ricopre di graffiti e galleggia tra iconiche lanterne rosse in un’insolita Foto di famiglia (2012). Indossa giubbotti e pantaloni pitturati ad hoc e si fa ritrarre da un’équipe di fotografi e artisti per parlare di bilancio statale, educazione pubblica, licenziamento e abusivismo.
La Cina però è solo l’inizio del suo viaggio. A partire dal 2008 il maestro intraprende il primo Gran tour fuori casa alla volta dell’Italia. Proprio come i pittori del passato, Bolin percorre lo Stivale in cerca d’ispirazione. Da qui il nome della seconda sezione in mostra, Hiding in Italy – Nascondersi in Italia. «Sono rimasto folgorato da quante bellezze realizzate dalla mano dell’uomo ci sono in Italia, per me la culla della cultura mondiale». Dal Veneto alla Campania, l’artista s’incorpora nella gradinata dell’Arena di Verona (2008), tra le poltrone scarlatte del Teatro alla Scala di Milano (2010) e gli archi del Colosseo (2017): «un simbolo dell’intera civiltà umana».
A Pompei presta il volto al polpaccio di Apollo (nel Tempio dedicato al dio, nel 2012), mentre alla Reggia di Caserta si copre d’oro per non sfigurare con la Sala del trono (2017). Liu Bolin gioca e sperimenta, ma non perde mai di vista l’obiettivo. «Prima di optare per una location – racconta –, prendo in considerazione i temi sociali che quel luogo racchiude in sé, medito in sostanza sui messaggi che tramite esso potrei trasmettere per avere un impatto sulla società».
Man mano che il maestro posa, conosce e abbatte stereotipi. La sua creatività è brace sotto la cenere. Non si spegne mai. Per questo il suo viaggio mimetico prosegue nella sala successiva e In the rest of the world (Nel resto del mondo), da Londra ad Arles, passando per Nuova Delhi. A New York Liu Bolin sfuma tra il cemento di Ground Zero, dove si ergeva il World Trade Center distrutto nell’attentato aereo del 2001. A Parigi svanisce nel caveau di una banca (2011), mentre a Bangalore (2014) emerge tra i rifiuti di un centro di raccolta.
Dagli altari alla polvere, il maestro non si fossilizza mai su nulla. La cronaca lo interessa tanto quanto le contraddizioni e gli stereotipi del nostro mondo. Per lui l’artista deve «indagare nel profondo il rapporto tra la civiltà creata dall’uomo e l’uomo stesso». Senza temere di alternare i registri. Non c’è da stupirsi quindi se, tra prosciutti appesi al soffitto, Ferrari in pole position, scaffali stracolmi di bibite (nelle sezioni Fade in Italy e Shelves), Bolin trova anche il modo di ricordare l’attentato avvenuto nel 2015 nella redazione di «Charlie Hebdo». Se le mensole su cui sistema le copertine della rivista satirica sono il simbolo della globalizzazione ma anche della vicinanza tra gli uomini, la sezione Cooperations (Collaborazioni) rende omaggio a mostri sacri della moda come Valentino, Jean Paul Gaultier e Missoni.
Ancora una volta Liu Bolin non teme la mercificazione, ma la sfrutta per creare un’arte vera, al passo col tempo e con lo spazio. Quando, giunti all’ultima sala dell’esposizione romana (sezione: Migrants), ci imbattiamo nei corpi dei migranti impastati alla sabbia della spiaggia che li ha accolti (Il giorno della memoria, 2015), lo spaesamento si volge in immedesimazione. Al posto loro potremmo esserci noi. Davanti a quei barconi arrugginiti, ricoperti di scritte bianche, nudi, pitturati di blu come la bandiera dell’Europa, siamo tutti uguali. Una vita, tante vite. Un solo Paese, un unico mondo, un minuscolo puntino nell’immensità dell’universo.