L’epopea degli arrotini italiani a Londra
Sono tutti uomini provenienti dal Trentino che, per un secolo, sono approdati nel Regno Unito per fare gli arrotini: un business che vale 10 milioni di sterline l’anno e che vede protagoniste piccole e medie imprese a conduzione familiare.
Lo scrittore e regista trentino Patrick Grassi ha raccontato l’evoluzione di questa realtà seguendo per un anno le vicende di tre famiglie nel suo film Sharp Families. Tagliati per gli affari che si concentra sulla comunità di Londra, mentre il libro Sul filo dell’emigrazione lascia spazio anche a chi è emigrato in Nord America.
«Un aspetto che mi ha colpito – racconta Grassi – è che queste persone non hanno declinato il loro attaccamento alle origini in senso nostalgico ma concreto: dal lavoro alle vacanze, fino alla scelta dell’educazione dei figli. Un esempio positivo di come, al tempo della globalizzazione che vuole standardizzare e uniformare un po’ tutto, le piccole comunità possono ancora esistere e rappresentare, quando rimangono unite, anche una scelta economica vincente».
Un’osservazione che trova conferma nelle stesse testimonianze dei protagonisti. «Uno di questi mi ha detto chiaramente che “oggi a Londra tutte le attività commerciali nel campo della ristorazione e della gastronomia vogliono l’arrotino”. Perché è un servizio utile. E grazie al sistema dell’affitto, il cliente paga un fisso per il servizio, e non si pone più il problema dell’acquisto e della manutenzione dei coltelli».
Molti ristoratori chiamano l’arrotino ancora prima di aprire un nuovo locale per assicurarsi il servizio di fornitura. «Oggi questo lavoro viene fatto da persone in camicia perché si effettua solo il servizio di consegna dei coltelli».
Qualcosa di molto diverso da come li ha rappresentati l’immaginario collettivo italiano. Tanto che gli arrotini a Londra sono, per molti clienti, gli «uomini italiani delle Dolomiti». Un lavoro divenuto anche il tratto distintivo di una comunità.
Gli arrotini di oggi come vivono il loro rapporto con la terra d’origine? L’identità d’appartenenza «rispecchia la classica divisione per generazioni: gli anziani emigrati hanno un forte attaccamento al paese dove tornano ogni anno, mentre figli e nipoti, cresciuti all’estero, si sentono inglesi, ma allo stesso tempo sono orgogliosi delle loro origini».
Chi ha continuato con il lavoro dell’arrotino, ha sviluppato un legame più forte con il Trentino, grazie al fatto che per anni ha lavorato a contatto con persone della Valle. «Ovviamente più le generazioni passano, più la lingua diventa un ostacolo perché sempre meno discendenti conoscono l’italiano».
Ci sono famiglie «divise» tra Italia e Gran Bretagna. «Ormai i paesi d’origine della Val Rendena come Carisolo, Pinzolo, Giustino, Massimeno si sono lasciati alle spalle la povertà, e sono diventati importanti mete turistiche delle alpi. Così molti discendenti hanno la seconda casa in Trentino, e tornano più volte all’anno: d’inverno per sciare, e d’estate per praticare sport all’aperto. Poi ci sono i padri e i nonni, coloro che sono emigrati, che per la maggior parte sono rientrati al paese dopo la pensione, oppure quegli arrotini che vivono all’estero ma che passano l’estate, in Italia».
Grassi continuerà a raccontare storie di lavoro e di emigrazione, come quella dei gelatieri bellunesi arrivati in Germania. Oppure storie di immigrati in Italia che, in diverse professioni e mestieri ricalcano dinamiche identiche a quelle delle comunità italiane all’estero, come il comparto della ristorazione, con i locali etnici, o come i settori dell’edilizia e dell’agricoltura.