L'inclusione è come un gioco
Di solito durante le vacanze di Natale ci rilassiamo a tombola con amici e parenti, guardiamo un bel film e soprattutto, almeno a casa mia, giochiamo a Scala Quaranta... Lunghissime partite, vi assicuro, tra assi, jolly, cuori e picche... A volte, però, cuori e picche non sono quello che sembrano. L’ho scoperto di recente anch’io, nell’incontro con una storia surreale al centro di un film del 2002, Interstate 60, di Bob Gale, tra i cui protagonisti ho riconosciuto subito il volto di Christopher Lloyd, il celebre Doc di Ritorno al futuro, nonché zio Fester nei primi due La Famiglia Addams.
Qui il nostro Doc viene chiamato Ray e ci propone un interessante gioco di carte dove i cuori diventano neri e le picche rosse. A farne le spese è Neal, il giovane protagonista del film, che, proprio come noi, non si aspetterebbe questa associazione, abituato com’è ad abbinare ai semi delle carte un colore prestabilito. Sapete perché? Ce lo spiega direttamente il Doc: «Ah! L’esperienza ti ha condizionato a pensare che tutti i cuori siano rossi e tutte le picche debbano essere nere. Le forme sono simili quindi per la tua mente è facile recepirli sulla base delle esperienze passate, piuttosto che aprirti all’idea che potrebbero essere diverse. Vediamo quello che ci aspettiamo di vedere, non necessariamente che cosa c’è nella realtà...».
Ovviamente la mia curiosità si è accesa in un lampo... Quante volte ci comportiamo così davanti alla disabilità? Quante volte quello che a prima vista non entra nelle nostre cornici ci destabilizza, spaventa o sconvolge senza farci vedere davvero il quadro che si disegna davanti a noi? Succede di fronte agli eventi, alle sfide che la vita ci pone, ma anche di fronte alle persone che non conosciamo e che per diversi motivi ci spingono ad allontanarci.
C’è poi un altro elemento. In questo caso i cuori sono neri e le picche sono rosse, è vero, ma vengono mostrate dal dottore al ragazzo molto velocemente, un trucchetto per agire sui suoi riflessi e indurlo a una risposta istintiva, automatica, che tuttavia si rivelerà falsata proprio dalla mancanza di tempo, che gli impedisce una vera osservazione.
Il pregiudizio, lo sappiamo, è una parola complessa che poggia su tante basi: la storia, la classe sociale, il vissuto, il contesto, la paura e il tempo. Un tempo, ci porta a notare Ray, che si misura con il passato, il nostro, e quello che siamo abituati a pensare, fare e percepire semplicemente perché così è sempre stato. C’è poi un altro tempo, il tempo della conoscenza, un tempo che ha a sua volta bisogno di tempo, per avvicinarsi, scrutare, scoprire che le cose possono essere molto distanti da come appaiono e finire per sorprenderci.
L’inclusione è come un gioco a carte che, a sua volta, proprio come il pregiudizio, si allena e si alimenta da solo, pur partendo, magari, da un divertente imprevisto. In fondo, continua Ray, è questione di esercizio: «La buona notizia è che se rifacciamo il test lo supererai, una volta consapevole che possano esistere cuori neri e picche rosse ti sarà facile saperlo percepire».
Ed è proprio così: la consapevolezza è qualcosa che si raggiunge e si conquista perché passa dall’esperienza. A questo punto non mi resta che augurarvi un anno capace di sovvertire le carte. Ma ricordate, succederà solo se sarete disposti a mettervi in gioco e a mischiare, con fiducia, il vostro mazzo di partenza. Buon 2020 dal Doc!
Scrivete, come sempre, a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.
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