L’inferno dietro le sbarre
Quando, nel settembre 1973, una dittatura militare prese il potere in Uruguay, tra i primi obiettivi della polizia e dell’esercito vi fu quello di smantellare definitivamente i gruppi dissidenti e, in particolare, d’incarcerare e punire i tupamaros, guerriglieri urbani di sinistra, uomini armati, motivati, persuasivi, di estrema pericolosità per il regime. Le forze dell’ordine risposero con violenza disumana: caccia all’uomo, imboscate, perquisizioni, eliminazioni a freddo.
Il film, ispirato a un libro autobiografico, segue le vicende di tre guerriglieri, che per dodici lunghi anni scontarono una tremenda prigionia. Si tratta di José «pepe» Mujica (de la Torre), futuro presidente dell’Uruguay, di Mauricio Rosencof (Darín) e di Eleuterio Fernández Huidobro, detto «ñato» (Tort), che ricopriranno anch’essi cariche politiche, dopo la loro liberazione, avvenuta nel 1985 grazie al ritorno della democrazia costituzionale. Sarà poi proclamata una discussa amnistia generale, che riguarderà ambo le parti in confitto. Molte violazioni dei diritti umani resteranno così impunite.
Con la prigionia si voleva ottenere dai reclusi (veri e propri ostaggi dei dittatori) informazioni preziose? Si cercava di recuperarli o convertirli politicamente? Per nulla. L’ufficiale che li arresta è esplicito: «vogliamo farvi impazzire, indurvi al suicidio, farvi pentire d’essere nati. Dovevamo ammazzarvi subito; lo faremo un poco alla volta». Il regime carcerario è tremendo. L’etica medica è assente: i camici bianchi non denunciano le torture («sarebbe stato meglio fucilarli» commenta un dottore) e anzi organizzano esperimenti neuropsichiatrici (elettroshock e altri interventi cruenti) simili a quelli compiuti nei lager nazisti. Solo una psichiatra, negli anni finali del carcere, si prende cura della psicosi delirante di un detenuto, prescrivendo farmaci, fornendo libri, carta e penna e soprattutto invitando a resistere («manca poco, tieni duro»).
Appunto, come si fa ad aggrapparsi alla vita, in condizioni simili? Che cosa sorregge l’animo di vittime schiacciate da un’istituzione carceraria che ha tratti criminali? La salvezza sta in piccole cose, simbolo di una vita ancora fremente, pur sotto il gelo affettivo di una solitudine mortifera. I prigionieri imparano a scambiarsi messaggi attraverso le pareti, picchiando con le nocche delle dita; potenziano l’udito e l’immaginazione; si nutrono – come piante desertiche – della poca luce che filtra dalle sbarre; ricordano un passato felice e lo mescolano a fantasie e desideri di liberazione.
Il regista Álvaro Brechner amplifica i rumori di fondo, spinge le dissonanze, contrasta i colori e sfigura le immagini come in un collasso dello sguardo, in uno svenimento, in un delirio onirico. La macchina da presa gira in tondo vertiginosamente, cade su dettagli, ripete assurdamente le inquadrature, ferisce l’attenzione, induce nell’audience la sensazione di essere braccati o murati vivi. Con queste tecniche la stessa sala cinematografica si trasforma in un’insostenibile, claustrofobica colonia penale, esteriormente linda e funzionante, interiormente infida e pericolosa.
Non a caso la pellicola di Brechner si apre con una citazione di Kafka tratta da Nella colonia penale, uno scritto del 1914 che narra l’esecuzione di un soldato, condannato per insubordinazione e oltraggio ai superiori. «[Il prigioniero] conosce la sua condanna?» chiede l’esploratore. «No» risponde l’ufficiale «sarebbe inutile comunicargliela, la leggerà sul proprio corpo». Curiosità: in tema di dittature latinoamericane degli stessi anni, suggeriamo il recente documentario Santiago, Italia di Nanni Moretti (2018) e due splendidi lavori del cileno Patricio Guzmán: Nostalgia della luce (2010) e La memoria dell’acqua (2015). Il cinema è un telescopio puntato verso la Terra, per ridare vita a un antico, cosmico desiderio di verità, soffocato nel sangue.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant’Antonio»!