Bassi l'ora!

Dal fronte del Don ai lager sovietici. Storia di uno degli ultimi sopravvissuti alla campagna di Russia. Grazie a voglia di vivere, fede e… un orologio.
06 Maggio 2019 | di

Quaranta gradi sotto zero, e una marcia durata giorni, nella steppa sepolta da metri e metri di neve. Quarantadue mesi di prigionia, e i compagni morti sotto gli occhi senza poterne accompagnare l’ultimo respiro. «Se mi fossi fermato, avrei fatto la stessa fine. Chi non ce la faceva più e si chinava a terra, veniva fucilato».

I ricordi di Giuseppe Bassi, classe 1919, sono vividi, precisi, ricchi di dettagli. Bepi, come lo chiamano tutti in paese, è uno degli ultimi prigionieri dei «gulag», i campi di lavoro sovietici, uno dei pochissimi sopravvissuti alle «marce del davai» (in russo «avanti», l’incitamento delle scorte sovietiche quando qualcuno si fermava, ndr) in cui morirono oltre 30 mila italiani. La partenza per il fronte nel febbraio del 1942, la prigionia in tre lager diversi (Tambov, Oranki, Suzdal) fino al ritorno a casa nel luglio 1946.

Il geometra Bassi ha da poco compiuto 100 anni. La sua Villanova di Camposampiero (PD), dov’è nato e abita da sempre, gli ha organizzato una festa nell’antica pieve di San Prosdocimo. «Una grande emozione, la dedico a chi non ha avuto la fortuna di tornare». Bepi ricorda tutto con incredibile lucidità: i nomi dei compagni, i luoghi, le date degli avvenimenti.

«L’orrore che ho visto, le atrocità di cui sono stato vittima e testimone mi hanno dato la forza per non dimenticare. Come sono sopravvissuto? Immerso “nel rumore della neve che crocchia sotto ai piedi”, come scrisse Rigoni Stern, ho cercato di mantenermi in movimento. E ho pregato, in ogni momento. Volevo vivere, per tornare a casa e raccontare».

In casa Bassi, l’occhio cade su una piccola teca ottagonale ricavata nel muro. All’interno gli oggetti raccolti durante la prigionia, custoditi con cura insieme a disegni, ritagli di giornale, libri. «Questo è lo spazzolino da denti – racconta –: me lo regalarono i compagni per il mio onomastico, il 19 marzo 1945. È realizzato a mano con pezzetti di legno, presi dalle cataste di tronchi che ci mandavano a raccogliere, e con il crine dei cavalli presenti nel campo».

E ancora, una spazzola, una pipa e pure un rosario blu. «Ci sono molto legato: me lo diede don Enelio Franzoni, il nostro “santo” cappellano militare. Anche lui, come me, fu fatto prigioniero nel 1942: non obbedì all’ordine di ritirata, scegliendo di assistere alcuni feriti intrasportabili. Don Enelio dormiva con i prigionieri – eravamo quarantacinque stipati in uno stanzone – al primo piano dei cosiddetti “castelli”.Tornò a casa nel 1946, a guerra ormai finita. Siamo sempre rimasti in contatto».

Bassi prende in mano un orologio. «Sono l’unico a essere riuscito a conservarlo. I compagni dovettero consegnare fedi, piccoli crocifissi che tenevano al collo, tutto. Nei campi di prigionia il tempo era scandito dai lavori forzati. Solo io, grazie a quel piccolo oggetto, sapevo realmente che ora fosse e potevo così rispondere alla domanda che mi facevano in tanti: “Bassi, l’ora?”. Divenne il mio soprannome».

Nella custodia che lo racchiude sta scritto: «È ritornato… dopo aver segnato 30.996 ore di fame, freddo, morte, abbandono… poi si è fermato». «Avevo appena 23 anni quando mi arruolai volontario nel 1942 – aggiunge –. Non avevo paura, desideravo solo fare il mio dovere come tanti altri italiani sul fronte. Non pensavo che la guerra fosse una catastrofe». 

Il periodo della prigionia è documentato dai suoi schizzi, sorta di foto istantanee di luoghi, edifici e ambienti dei lager. Durante la prigionia, li ha disegnati sulle cartine di sigaretta. Tornato a casa, li ha subito eseguiti a memoria. Un patrimonio inestimabile per la sicurezza del tratto, l’accuratezza e la precisione delle prospettive, la fedeltà dei particolari. Oggi, parte di questi lavori si trova nel museo del campo di Suzdal.

Da anni Bassi si reca nelle scuole. I ragazzi lo ascoltano, gli fanno domande. In queste settimane sta ultimando le riprese di un documentario sulla sua storia. La troupe lo adora. «Lavorare con loro mi dà un’incredibile energia», afferma. I giovani professionisti di Emera Film assicurano che è il contrario. «È lui che dà la carica a noi. Ci stupiscono il suo entusiasmo, la forza della memoria e l’umanità». Quel coraggio di rimanere sempre e comunque umani, che nessuna barbarie è mai riuscita a scalfire.

Data di aggiornamento: 06 Maggio 2019
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