Preti in trincea
Lo spaventoso attacco notturno ha devastato la prima linea italiana. I soldati semplici Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) e Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) l’hanno scampata bella: erano nelle retrovie a recuperare nuovo filo spinato e paletti di sostegno. Facendosi strada tra le macerie, i cadaveri e i feriti, raggiungono il cappellano militare che dà loro la notizia: tra i caduti c’è anche l’amico Bordin, padre di cinque figli. «Ma Cristo, dove sei?» se ne esce sconfortato un graduato, lì vicino. «È qua con noi, sergente. Se è vero che ha 33 anni, è dell’84» gli risponde il cappellano, prima di tornare ad assistere i feriti.
È una delle tante scene giustamente famose de La grande guerra (1959) di Mario Monicelli. In breve riesce a far intuire il perché ideale della presenza dei sacerdoti e religiosi in trincea. Prima di altre motivazioni di opportunità e di necessità, patriottiche e militari, c’è questa realtà di fede di fondo, un’intuizione per molti cristiani al fronte: «Era preghiera la vita di trincea, i pericoli, i disagi, era preghiera il vostro sangue» predica don Giovanni Minzoni alle truppe sul Carso nel luglio 1917.
«Tutti avevano la faccia del Cristo / nella livida aureola dell’elmetto. / Tutti portavano l’insegna del supplizio / nella Croce della baionetta / e nelle tasche il pane dell’ultima cena / e nella gola il pianto dell’ultimo addio» recita la poesia di Carlo Delcroix incisa su una lastra di zinco all’entrata della galleria del Castelletto delle Tofane di Rozes (BL).
Fatta la tara della retorica dell’epoca, il messaggio è chiaro. Per dirlo con le parole di oggi, «molti preti intuirono che il vangelo non era giunto in trincea con il loro arrivo, ma era già là, nel dramma che si stava consumando nelle coscienze di giovani costretti a fare i conti ogni giorno con la vita e la morte», come sintetizza don Bruno Bignami, docente di Teologia morale all’Istituto superiore di scienze religiose di Crema-Cremona-Lodi-Vigevano.
Cristo ha 33 anni, è dell’84, nel conflitto mondiale soffriva su tutti i fronti per il disastro della guerra. La trincea era l’estrema periferia del tempo, piena di ragazzi catapultati in un gioco più grande di loro. Era bene che lì in mezzo ci fossero anche i pastori.
I cent’anni che ci separano dai fatti tragici della prima guerra mondiale nel sentire comune e di fede sono una distanza siderale: il Novecento ha prodotto un sommovimento radicale dell’impostazione dei valori, e così oggi percepiamo come ossimori stridenti tutta una serie di binomi che all’inizio del secolo scorso perlopiù non scandalizzavano: «prete soldato», «cappellano militare», «benedizione delle armi», «soldati martiri», «Dio è con noi» contro il nemico che invoca lo stesso identico Dio...
Per cercare di avvicinare il dramma del conflitto mondiale e le tensioni che lo attraversarono abbiamo interpellato autorevoli voci del panorama contemporaneo agli eventi, e della riflessione storico critica di oggi.
Nell’ampio dossier pubblicato sul Messaggero di sant’Antonio di settembre e leggibile anche nella versione digitalizzata della rivista intervengono Roberto Morozzo della Rocca, ordinario di storia contemporanea all’Università «Roma tre» e autore de La fede e la guerra e il già citato don Bruno Bignami, presidente della fondazione Don Primo Mazzolari e autore di La Chiesa in trincea.
Tra i testimoni di prima mano, invece, spiccano don Primo Mazzolari, cappellano militare del 19º Nucleo delle truppe ausiliarie in Francia, che al tempo fu su posizioni interventiste; papa Giovanni XXIII; don Carmine Cortese; don Peppino Tedeschi; don Francesco Piantelli; monsignor Angelo Bartolomasi (guida del clero militare italiano con la qualifica di vescovo di campo); don Giovanni Rossi (al quale Nicoletta Masetto dedica uno specifico ricordo).
Completa la trattazione un focus dedicato ai frati conventuali e alla Basilica di sant’Antonio nella Padova del 1917 che, dopo Caporetto, diventò la «capitale al fronte» italiana.
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