La musica dei lager e dei gulag
Tutte le notti la fiammella di una candela brillava nei laboratori del dipartimento di patologia del campo di concentramento di Buchenwald. Nessuno aveva il coraggio di entrarci, perché era proprio in quelle sale che le SS svolgevano i loro sinistri esperimenti sui cadaveri dei deportati. Eppure Jozef Kropinski, prigioniero politico polacco di 29 anni, lo riteneva il luogo più sicuro: lì nessuno sarebbe venuto a cercarlo. Proprio in quel luogo, notte dopo notte nel gennaio del 1944, Kropinski si dedicò a quello che per lui – e per molti altri, nei lager – era un supremo atto di libertà: comporre musica. Scrisse quartetti d’archi, canzoni, marce, più di 180 spartiti. Li prese con sé, insieme al suo violino, anche quando, il 10 aprile 1945, il campo venne sgomberato velocemente e iniziò l’ultima, dolorosa «marcia della morte». Alcune partiture finirono in cenere, bruciate in un falò per combattere il freddo, ma 117 si salvarono, e Jozef le portò a casa. Da allora, tuttavia, non riuscì più a suonare: troppo profondo era stato l’orrore, troppo difficile il ricordo.
«Perdere anche una sola di queste melodie sarebbe un danno irreversibile, perché la musica non torna più. Noi dobbiamo recuperarla dalle pieghe della Storia e farla circolare, come sangue nelle vene», spiega Francesco Lotoro, 55 anni, pianista, direttore d’orchestra e docente. Da trent’anni, ormai, dedica tutto se stesso alla raccolta e alla riedizione della «musica concentrazionaria», ovvero quella composta nei campi di prigionia o di sterminio.
Sono spartiti nati fra il 1933, quando furono aperti i campi di Dachau e di Börgermoor, e il 1953, anno della morte di Stalin: canti religiosi o brani jazz, operine, canzoni folk, lieder e nonetti che furono scritti – spesso in condizioni estreme – nei lager tedeschi così come nei gulag dell’ex Unione Sovietica o nei penitenziari militari di Asia e America. Lotoro ha seguito le tracce di queste partiture lungo le strade del mondo, ha cercato i musicisti sopravvissuti, ha bussato alla porta dei loro familiari, ha scandagliato archivi. In un’incessante sfida intellettuale è riuscito finora a riunire 8 mila spartiti, quasi 400 ore di interviste e più di 10 mila documenti, volumi, memoriali, diari. Ha anche eseguito e inciso molti brani, portandoli in concerto in sale prestigiose, «e chissà quante note devono ancora riemergere – aggiunge –. Secondo alcune stime, i creatori di musica rinchiusi nei vari campi furono più di 100 mila».
Francesco Lotoro è il Maestro, come è stato nominato in un libro biografico e in un film. Lo incontriamo nella sua Barletta, la città dell’affascinante castello svevo e della splendida cattedrale, dove è nato e ha messo radici il suo sogno. Qui Lotoro ha radunato tutti i preziosi materiali della sua ricerca, qui ha concepito i ventiquattro cd-volumi dell’enciclopedia discografica KZ Musik, qui ha creato l’Istituto di letteratura musicale concentrazionaria che sta elaborando un ambizioso Thesaurus in dodici volumi e due dvd. A Barletta, soprattutto, sta fiorendo il progetto della Cittadella della musica concentrazionaria: con un investimento di 20 milioni di euro, un’ex distilleria, architettura industriale risalente al 1882, verrà recuperata e trasformata in un centro studi con biblioteca, campus di scienze musicali, libreria del ’900, museo e teatro. I lavori dovrebbero essere avviati nei prossimi mesi.
L’articolo completo dedicato alla musica concentrazionaria e alle ricerche di Francesco Lotoro è leggibile sul «Messaggero di sant’Antonio» di gennaio 2019 e nella corrispondente versione digitale.