Quando l’Italia si mise a correre
Strade intasate, aria velenosa, negozi aperti 24 h su 24 e ragazzini che non si staccano dal touch screen neppure per schivare i lampioni. Ecco l’Italia del 2019. O almeno una parte di essa. E pensare che settant’anni fa le auto in città si contavano sulle dita di una mano, i bambini giocavano a scalone sui marciapiedi e le mamme più fortunate facevano la spesa al mercato della Borsa Nera. Era l’Italia del Secondo dopoguerra. Un Paese allo stremo, ma pronto a rinascere. Proprio per ricordare quel periodo controverso, Palazzo Braschi a Roma ospita, fino al 3 febbraio, la mostra fotografica «Il sorpasso. Quando l’Italia si mise a correre».
Centosessanta scatti da archivi storici (su tutti: Istituto Luce e Publifoto) per raccontare quindici anni (dal 1946 al 1961) di sacrifici e traguardi. Dietro l’obiettivo: fotografi anonimi, ma anche grandi firme come Gianni Berengo Gardin, Fulvio Roiter, William Klein. «Nessuno... che non abbia vissuto quegli anni, può nemmeno pallidissimamente immaginarli» appunterà Rodolfo Sonego nella sceneggiatura del film Il moralista (1959). Ed ecco allora la fotografia che, testimone diretta degli eventi, ci viene in aiuto. Se è vero che l’uomo ha la memoria corta, non c’è niente di più incisivo di uno scatto per ricordarci da dove veniamo e dove possiamo andare.
Una sposa sfila a braccetto del marito tra le macerie. Alle loro spalle, il corteo degli invitati e ciò che resta del paese bombardato. Proveniente dall’Archivio di Eboli, lo scatto di Luigi Gallotta esprime tutto il dramma della guerra, ma anche la voglia di ricominciare che nel 1945 inizia a fluire nelle vene degli italiani. Ci troviamo al piano nobile di Palazzo Braschi, nella prima delle dieci sezioni dedicate all’Italia del secondo dopoguerra. La parola d’ordine è «rinascita», come quella che trapela dalle immagini esposte. La ritroviamo nei sorrisi degli orfanelli, negli sguardi delle suore che distribuiscono gli aiuti del Piano Marshall, nei gesti degli operai intenti a riparare il ponte sul Po a Piacenza.
Sulle note di Nel blu dipinto di blu, Domenico Modugno ci conduce alla sala successiva, dedicata all’unione e al senso di appartenenza nazionale. Le avversità mettono alla prova, ma creano anche empatia. Non solo le avversità… Sulle pareti, accanto agli sfollati del Polesine (dopo l’alluvione del ’51) e ai minatori di Marcinelle (la miniera belga dove nel ’56 morirono 262 persone di cui 136 italiani), c’è posto anche per il giro d’Italia del ’49 e le Olimpiadi romane del ’60. Lo sport è un collante sociale, perché crea immedesimazione e spinge a mettercela tutta. Così pure il gioco sottoforma di quiz televisivo che, a partire dal 1955, con Lascia o raddoppia, diviene un punto di riferimento per migliaia di italiani. Poco importa se la tv è un bene di lusso. Pur di guardarla ci si ritrova nel retrobottega di un locale, al freddo, sotto un firmamento di salami appesi.
Mentre Fred Buscaglione intona: «Eri piccola… così», una signora sulla sessantina segue le note fin davanti alla cassa da cui provengono. Poi dondola le ginocchia e serra le palpebre con aria nostalgica. Ecco. L’Italia del dopoguerra è anche questo. Vitalità e leggerezza. Non a caso il palinsesto audio prosegue con Edoardo Vianello e il suo «finimondo per un capello biondo». La superficialità dura giusto il tempo di varcare la sala successiva. Di colpo la coesione sociale cede il passo all’attrito. Nei partiti, nelle piazze, negli stadi. Vedere per credere i tumulti scoppiati dopo l’attentato a Togliatti nel ’48 o al termine di un comizio del MSI a Genova nel ’58.
Proseguiamo il viaggio nell’Italia che fu, soffermandoci sull’universo femminile. Guidati da Tony Dallara e dalla sua Romantica, incontriamo mamme in procinto di partire per le Americhe, miss in costume che salgono una scalinata, spose che salutano dal treno, prostitute in attesa del prossimo cliente. Sullo sfondo: un Paese a due velocità, in cui le contraddizioni abbondano ma dove, con impegno e determinazione, quasi tutto diventa possibile. Chi cerca trova dice il proverbio. E chi semina bene raccoglie meglio. Ne sanno qualcosa i contadini che lavorano la terra a gradoni in Calabria nel 1951 e i trivellatori Agip a caccia di idrocarburi a Sant’Arcangelo di Romagna nel ’56.
L’Italia del dopoguerra è una realtà che, nonostante la forte ondata migratoria verso Germania, Belgio, Svizzera e Usa, scommette sulle proprie risorse. Il suo popolo non perde mai la speranza, tanto meno la fede. Il sesto nucleo della mostra ne è la prova. Dalla foto di gruppo con la statua di Gesù falegname portata a San Pietro in elicottero nell’anno santo (1950) passiamo all’avanzata dei cattolici, un plotone di fedeli compatti sotto il segno della croce. Inevitabile il riferimento a Il quarto stato di Pelizza da Volpedo per questi dipendenti del ministero della Marina mercantile che fanno capo alla Democrazia cristiana. La religiosità s’intreccia con la politica nelle sale di Palazzo Braschi, poi incrocia l’industria (curioso lo scatto con gli operai Fiat in pellegrinaggio a Lourdes nel ’57) e infine l’urbanistica.
Oltre la saletta dove è proiettato il documentario Conquiste nel Sud, sulla rinascita del Mezzogiorno, l’ultima sezione della mostra rende omaggio alla città: un cantiere in espansione dove i contadini traslocano in cerca di lavoro. Nell’arco di qualche anno l’incremento demografico e lo sviluppo tecnologico disegnano un nuovo paesaggio di viadotti, ponteggi, sottopassaggi. «Il fatto nuovo che più caratterizza l’espansione urbana dopo il 1945 è la dimensione – scrive Italo Insolera in L’urbanistica, 1973 –. Sebbene ancora lontane dalle megalopoli americane, giapponesi ed europee, le città italiane ne hanno già i problemi».
Il sorpasso ormai è compiuto, l’Italia ha schiacciato l’acceleratore e ora veleggia verso il boom degli anni Sessanta. Corsi e ricorsi della storia. Giusto in tempo per la prossima crisi. I millennials dinanzi a tutto ciò un po’ se la ridono: di spread e disoccupazione sono degli esperti ormai. Ma, a differenza di chi li ha preceduti, oggi non sognano più, hanno perso fiducia in loro stessi prima ancora che nel futuro. Per questo ha senso ripercorrere il passato, scrutare ancora una volta quelle foto in bianco e nero. E tornare a credere. Dalle radici ai rami, dalla terra alle foglie. Verso un’Italia sempre più autentica e inclusiva, verso un’Europa che profumi di giustizia e libertà.
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