Nei panni del malato
Ha 81 anni Anthony (interpretato da Anthony Hopkins), ingegnere in pensione, e mostra i primi sintomi di demenza: amnesie, confusione mentale, mutamenti d’umore. Vive in uno spazioso appartamento londinese, confortevole e ben arredato. Sua figlia Anne, intelligente e compassionevole, gli fa visita regolarmente. La seconda figlia Lucy, la favorita dal padre, è ricordata come una pittrice, ma non la si vede mai e sembra abbia patito un incidente. Anthony è insoddisfatto delle badanti, che si avvicendano attorno a lui. Parrebbe una trama scontata, eppure traspare un’inquietudine sottile. Anne cambia partner, progetti, atteggiamenti, persino tratti del volto. Anthony ha comportamenti bizzarri e bruschi: sono indizi dell’Alzheimer o semplici espressioni di un carattere spigoloso? Gli hanno rubato l’orologio da polso o è solo una fantasia paranoica per coprire vuoti di memoria?
Tema centrale nei vissuti del malato è quello della casa. «Dov’è la mia casa?», «non lascerò mai casa mia!» grida Anthony. Ma in quale dimora vive davvero il protagonista? Una ricca dimora inglese? Un ospizio? Un ospedale? Dove si trova col corpo e dove con la mente? I pensieri e le abitudini, che costituivano il suo rifugio in tempi di salute, si sono resi confusi, instabili, fragili, minacciati, mutevoli. Mancano improvvisamente cose e persone che gli tenevano compagnia, delimitavano lo spazio dei suoi sentimenti, orientavano il suo atteggiamento morale. Dove sono finiti? Sono stati rubati, rapiti o nascosti da qualche presenza malefica? Il mondo si è dimenticato del malato o è Anthony ad aver scordato ciò che gli era domestico, familiare, intimo?
Nel film The Father (Francia/Regno Unito, 2020), la tattica del regista Florian Zeller è quella di far immedesimare il pubblico di soppiatto nel ruolo del malato, facendoci vivere dall’interno la fenomenologia del degrado psichico. Ciò che a noi pareva reale (un quadro, una stanza, uno spazio vuoto, un parente, una badante) si rivela invece un’immaginazione, un fantasma. Viceversa, ciò che sembrava un sogno si palesa di colpo terribilmente vero. Un’ossessione mentale si materializza e ci fa paura. Il delirio di Anthony diventa il nostro e insinua continui sospetti. I dialoghi si ripetono dando l’impressione di un dèja-vu, di un già visto, già sentito, già vissuto. Ma quando? Dove? «Stanno accadendo cose strane» ammette l’ingegnere. «Sto perdendo tutte le mie cose». «Sono un albero che sta perdendo le sue foglie».
Inganno allo schermo
La pellicola parla del cinema in generale, come pratica dell’inganno e della speranza. Le immagini sembrano in movimento, mentre in realtà sono solo fotogrammi accostati a una velocità che l’occhio non può cogliere. Il cinema induce una «demenza» nello spettatore, lo seduce con prospettive falsificanti, gli chiede di condividere un sogno, lo ammalia allucinando sullo schermo un mondo che non esiste in carne e ossa. Per guarirci dagli sguardi ovvi e conformisti, il cinema spinge la nostra retina in errore e ci porta in una seconda realtà, dove l’anormale diventa la regola e ciò che pareva normale è denunciato come equivoco, malato, superfluo.Si può azzardare anche una lettura teologica. L’essere umano che soffre invoca Dio, ma Dio non esaudisce sempre o immediatamente queste suppliche.
Il film dà rappresentazione a un pensiero ricorrente in chi si sente solo, assediato dal male e abbandonato da Dio. Il pensiero tremendo è che Dio stesso abbia problemi, non «possa» intervenire, perché ha la mente altrove, è impegnato in una battaglia contro forze ostili. Dio è il Padre (The Father) che sta nei cieli, mentre noi abitiamo sotto il sole. E sotto il sole non c’è niente di nuovo. Lassù sopra i cieli c’è il principio della nostra salvezza, ma a volte i cieli sono troppo alti per le nostre deboli ali o sono coperti da nuvole fosche. Dio vincerà il nemico – noi lo speriamo –, ma per ora egli è come un padre che soffre con noi e per noi ed è toccato dalle nostre invocazioni: «Signore abbassa il tuo cielo e discendi!» (Salmo 144,5).
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