Nella giungla del potere
Elizabeth Sloane lavora in un’agenzia di lobbying di orientamento conservatore, ma decide di passare al fronte opposto per non farsi complice di una campagna di comunicazione volta a contrastare la regolamentazione della vendita di armi. Si crea nemici pericolosi e dovrà subire un’inchiesta del Senato Usa. Riuscirà a difendere la propria reputazione in un ambiente dominato da enormi interessi mercantili? To lobby significa in inglese «fare pressioni», ovvero influenzare il processo decisionale pubblico. Detto così sembrerebbe un’azione illecita, minacciosa e senza scrupoli, realizzata da oscuri faccendieri. Ma non è detto che le cose stiano in questi termini, se la persuasione è finalizzata alla promozione (advocacy) di un’idea o alla perorazione di una causa, che alcuni soggetti della società civile ritengono valida, utile, meritevole di essere perseguita e persino tradotta in legge. Già, perché le leggi non sono né perfette, né chiare, né complete, né definitive. Nemmeno la Costituzione Usa e i suoi emendamenti.
Il presidente Usa John F. Kennedy diceva che i lobbisti erano quelle persone che in pochi minuti e in cinque fogli di carta gli facevano comprendere un problema, per cui i suoi collaboratori impiegavano tre giorni e decine di pagine. Il lobbismo, inteso come rappresentanza di interessi particolari nei confronti di parlamentari o amministratori statali e, quindi, come metodica influenza dall’esterno sulle decisioni pubbliche, è una componente fisiologica della vita democratica. Sarebbe dunque auspicabile un’adeguata regolamentazione normativa, che impegni ogni agenzia di lobbying a dichiarare esplicitamente la sua mission, i principi di riferimento, gli interessi che intende tutelare, le responsabilità interne, i valori sociali perseguiti, le modalità dei rapporti con i decisori pubblici. Occorrerebbe anche che si costituisse una rete, un network nazionale o europeo di coloro che, esercitando il lobbying per professione, aderiscono a un codice deontologico unitario e sono dotati di una commissione etica indipendente, pluralistica e interdisciplinare, in grado di fornire pareri su eventi dubbi o comportamenti ambigui.
Miss Sloane è furba come il diavolo, ma lavora tra altri diavoli, e lo spettatore parteggia per lei, che ha saputo dir di no a un incarico lautamente retribuito e si è trasferita in una piccola agenzia per far approvare dal Congresso Usa un emendamento che limiti la vendita delle armi. Il film non vuole essere un sobrio documentario, ma l’iperbolica caricatura di un contesto affaristico marcio fino al midollo e popolato di sciacalli senza scrupoli. Miss Sloane ha uno scatto di dignità, ma non è una santa. Una vita professionale azzardata e frenetica le ha dissociato l’anima: paga escort maschi per sentirsi donna senza contrarre impegni; assume eccitanti per lavorare senza pause; congela i turbamenti morali e le amicizie per evitare dolori e delusioni; ama la potenza come ogni psicopatico e irride alla debolezza di chi cura gli affetti più teneri.
Il regista sceglie una fotografia da pubblicità commerciale, un’ambientazione lussuosa, una scenografia impeccabile come il rossetto della Miss. La concentrazione delle inquadrature sulla protagonista amplifica teatralmente il brivido narrativo suscitato da una donna fascinosa, che venera il pragmatismo con spaventosa coerenza, pretende risultati e recide relazioni con la forbice delle sue parole. Si va al cinema anche per questo: per lasciarci tradire dalle immagini di un sogno e per risvegliarci poi più lucidi, per apprendere scritture cifrate e ascoltare quello che non si può dire nella conversazione finta dei benpensanti, nella retorica sui cosiddetti grandi valori. Il cinema stesso è una grande lobby a favore dei fabbricatori d’immagini. Il cinema è una narrazione, il cui potere persuasivo è sottoposto alla prova dello sguardo. Chi va al cinema spera forse di trovare una Miss Sloane, che lo ingaggi nel suo staff temerario, in nome di una buona causa.