Non esistono ragazzi cattivi
«Caro padre direttore, sono una nonna di ben sette nipoti. Tutti bravi ragazzi, nel complesso: qualcuno studia un po’ di più, qualcuno un po’ di meno; qualcuno è già fidanzato, qualcun altro non si decide ancora; qualcuno è posato e riflessivo e altri sono vivacissimi, ma, insomma, non mi posso proprio lamentare. Tranne che di uno, il quale, dall’età di 13 anni, secondo me a causa di cattive compagnie, sta facendo letteralmente impazzire mia figlia. Ne ha combinate di tutti i colori, non voglio star qui a spiegarle... La faccio breve: da qualche mese si trova in una struttura carceraria minorile. Io per consolare mia figlia dico che gli servirà questa esperienza per imparare la lezione. Ma lei risponde che in genere, quando un ragazzo finisce in questi posti, ne esce peggio di prima. Lei che cosa ne pensa? Cosa posso dire a mia figlia che per questa storia si sta ammalando?». Una nonna preoccupata
Come tutte le esperienze umane, anche quella del carcere, per minorenni o per adulti che sia, può essere positiva o negativa, permettere di reinserirsi nella vita sociale maturato e responsabilizzato o persino peggiorato. Sappiamo di storie esemplari, di uomini e donne a cui l’esperienza di reclusione ha facilitato percorsi umani, anche nella fede, che hanno dell’incredibile. Mentre di altri sappiamo che ne sono usciti persino più abili e convinti nel loro male, sicuramente più arrabbiati e incattiviti.
Evidentemente non è la reclusione in sé a fare miracoli: non basta essere privati della libertà e trascorrere qualche anno in cella per redimersi. A me sembra che l’importante, per tutti coloro che si trovano coinvolti in queste difficili esperienze, ragazzi, famiglie, educatori, agenti di sorveglianza, società civile tutta, è la consapevolezza chiara che non si tratta, non può trattarsi, di punizione né, tanto meno, di vendetta.
La questione non è farla pagare in qualche modo a colui che ne ha combinata una di grossa. Si va in carcere per essere aiutati a fare i conti con le proprie azioni e le loro conseguenze per sé e per gli altri, per incontrarsi con se stessi, anche con le proprie parti «sbagliate» o «fuori controllo», per misurare la distanza tra il bene e il male, che non sono la stessa cosa, per essere sicuri che cambio io ma qualcosa cambiano anche gli altri attorno a me.
Si va in carcere, o al giorno d’oggi per fortuna anche in tante altre soluzioni alternative al carcere stesso, per ricominciare a volersi bene, e ad accettare, e non è così semplice, che qualcuno ci voglia bene: perché mettere in mostra le proprie fragilità, il proprio bisogno di amore, non è facile per nessuno.
Da questo punto di vista, le risorse che ogni istituto penale minorile può mettere in campo sono tante e diverse: competenza e formazione del personale, messa alla prova, affido a comunità esterne al carcere, mediazione penale che permette l’incontro tra il colpevole di reato e le vittime. Naturalmente resta essenziale, per chi è «dentro», sapere che «fuori» è in testa e nel cuore di qualcuno. Della famiglia, soprattutto se parliamo di ragazzi.
Mi rimane però un dubbio… In un’altra vita, tanti anni fa, ho vissuto assieme a ragazzi simili al nipote della nostra lettrice. E mi ha sempre colpito il bisogno di alzare il tiro delle loro trasgressioni fino a trovare, finalmente!, un adulto e un contesto umano autorevole e affettivo, capace di dir loro senza mezzi termini: stop!
Abbiamo ritenuto che i metodi educativi di una volta fossero senz’altro troppo autoritari e coercitivi, d’accordo. Ma se li abbiamo sostituiti con il nostro semplice «assenteismo», non ci abbiamo guadagnato un granché. Non esistono ragazzi cattivi: fanno il loro mestiere, talvolta esagerando. Ma gli adulti, fanno il loro? Sant’Antonio, che spesso visitava i carcerati, protegga tuo nipote, cara «nonna preoccupata»!