Populista sarà lei
È la parola politica più in voga del momento. Populismo. In libreria, le hanno dedicato titoli e analisi schiere di editorialisti e osservatori sociali. Già, l’inedita fortuna che il populismo vive in questa stagione alle più diverse latitudini interroga su radici e conseguenze, sullo stato di salute delle nostre democrazie e su quello della società contemporanea. Per cercare di intuire che cosa sta accadendo varrebbe la pena partire dal significato della parola, se non fosse che anche gli studiosi faticano a produrre una definizione accettata da tutti. Si fa presto a vederci il riferimento alla radice, popolo, ma poi? In molti convergono nel ritenere valida la proposta di Cas Mudde, scienziato politico olandese: «Il populismo è un’ideologia che in definitiva considera la società come separata in due gruppi omogenei e antagonisti, “il popolo puro” contro “l’élite corrotta”, e che sostiene che la politica dovrebbe essere un’espressione della volontà generale del popolo». È un punto di partenza, ancora molto generico.
Poi: è sì un’ideologia, ma del tutto particolare. Versatile, perché adattabile a contesti diversi. Cangiante, perché mutabile nei contenuti. Avrebbe, insomma, «un nucleo centrale sottile», come propone ancora Mudde definendo il populismo una thin-centred ideology (ideologia dal nucleo sottile), compatibile tanto con partiti della destra radicale occidentale quanto con formazioni e governi della sinistra latinoamericana. L’eclettismo del fenomeno ha fatto parlare anche di «ideologia fantasma» (Michael Freeden). Secondo questa visione, il populismo sarebbe «un repertorio di pratiche discorsive e di retoriche che sono state e sono al servizio delle più disparate cause» spiega su «Il Regno» Paolo Segatti, docente di sociologia politica all’Università di Milano. In pratica, tutti i partiti possono «buttarla in populismo» e, precisa Segatti, «di fatto lo fanno, anche se alcuni di più e più spesso».
Come orientarsi?
La questione, spinosa quanto intrigante, sta interrogando anche gli studiosi di matrice cattolica. Tra i vari contributi usciti negli ultimi mesi si segnala l’eloquente Perché il populismo fa male al popolo. Le deviazioni della democrazia e l’antidoto del «popolarismo» (Terra Santa), nel quale padre Bartolomeo Sorge offre con la consueta lucidità risposte argomentate alle sollecitazioni di Chiara Tintori. Ancora dialogico il libro Scusi prof, cos’è il populismo? (Vita e pensiero) di Andrea Boitani e Rony Hamui, docenti di economia alla Cattolica che sul tema inscenano il dialogo tra uno studente curioso e una prof appassionata. Infine padre Francesco Occhetta, in libreria con Ricostruiamo la politica. Orientarsi nel tempo dei populismi (San Paolo), nel quale il gesuita rielabora e amplia alcuni interventi usciti su «La Civiltà Cattolica», non limitandosi a descrivere il fenomeno, ma proponendo anche dei possibili antidoti alla sua diffusione.
Per capirne di più lo abbiamo avvicinato, chiedendogli conto della sua scelta di parlare sempre di «populismi» al plurale. «I populismi sono movimenti storici ciclici – gli ultimi due sono nati intorno al 1930 e al 2008 – che producono energia quando il popolo soffre e subisce crisi finanziarie, alti tassi di disoccupazione, l’accoglienza di grandi flussi migratori, l’incremento delle spese militari, la crisi della classe media, un’eccessiva corruzione della classe politica e, infine, la constatazione che le classi dirigenti da popolari diventano aristocratiche. Sono come burrasche che si infrangono su tutto ciò che è governo e istituzioni».
Se queste sono le condizioni «meteorologiche» che possono scatenare la burrasca-populismo, le conseguenze sono poi altre, come sottolinea padre Occhetta: «La degenerazione del concetto di popolo e la strumentalizzazione di chi lo guida è fisiologica negli organismi politici: le cellule del populismo possono rinnovare o deteriorare un organismo. Molto dipende dalle risposte che la coscienza del popolo sceglie di dare alle conseguenze dei populismi, che negano il pluralismo e le minoranze interne; venerano i leader come padri e padroni che appaiono nei media come uniche voci; esaltano il nazionalismo e il sovranismo; ignorano gli enti intermedi nella società, come le associazioni, la Chiesa, i sindacati; privilegiano forme di democrazia diretta su quella rappresentativa; ignorano le garanzie costituzionali come forme di controllo del potere; formano la pubblica opinione su appelli a emozioni e a credenze personali; sostituiscono la destra e la sinistra politica con le categorie del Nord contro il Sud, il “noi” contro il “loro”; contrappongono le élite a una idea di popolo puro».
Francesco Occhetta è pure giornalista e consulente ecclesiastico nazionale dell’Ucsi (Unione cattolica stampa italiana), altro osservatorio dal quale può rendersi conto del ruolo che la comunicazione ha nella diffusione di un’ideologia populista. «Avviene – spiega il nostro interlocutore – quando il giornalismo smette di studiare e serve il potere. Se le parole di chi comunica non hanno un respiro di vita, rimangono schiacciate sulle emergenze e sulle paure. È per questo che l’autoreferenzialità della comunicazione politica, aggravata dalle fake news e dalla mancanza di certificazione delle notizie, sta umiliando il dibattito pubblico. Assistiamo a un paradosso: i responsabili della comunicazione di questi ultimi governi guadagnano di più dei presidenti del Consiglio. Può un Paese essere intrappolato da tecniche comunicative che deformano la realtà? La dignità umana vive di parole scambiate, di verità e di lealtà, di dialogo e di ascolto, di alleanza e di mediazione, che poi diventano consuetudini e leggi. Per questo occorre essere attenti a come ci si informa».
La responsabilità è collettiva, ma poi, in ultima istanza, individuale. Così, congediamo padre Occhetta chiedendogli quale atteggiamento sia bene coltivare per evitare di restare coinvolti in un pensiero populista. «Anzitutto discernere tra il bene e il male nello spazio pubblico e poi fare tesoro dell’esperienza sturziana come metodo: lo spirito riformista, l’interclassismo, la coesione sociale, la centralità della persona e la cultura della mediazione, che non vuol dire accontentare tutti, ma rappresentare tutti. Il populismo si supera con il popolarismo, l’essere temperati di centro. È da qui che sta ripartendo un nuovo processo politico, ma non sappiamo ancora dove approderà. Una cosa deve però essere chiara: non possiamo dare risposte vecchie a problemi nuovi».
Il Papa non è populista
Pure papa Francesco si è dovuto confrontare con la difficoltà di inquadrare il fenomeno del populismo. Di ritorno dal viaggio in Egitto ad aprile 2017, interpellato in merito ha ammesso: «Questa parola, da parte mia, ho dovuta reimpararla in Europa, perché in America Latina ha un altro significato». L’inedito firmato da Bergoglio che pubblichiamo in anteprima nel numero di febbraio del «Messaggero di sant'Antonio» lascia almeno in parte intuire l’afflato di Francesco. L’influenza dell’argentina «teologia del popolo» si è espressa in molteplici richiami nel corso del suo pontificato. Ben riassume su «Il Regno» Daniele Menozzi, professore emerito di storia contemporanea presso la Normale di Pisa: «Nel bagaglio culturale con cui l’arcivescovo di Buenos Aires arriva a Roma il riferimento al popolo rappresenta un valore». Un modello è l’arcivescovo martire san Oscar Romero. Guardando al suo esempio, il Papa ha sottolineato come ogni ecclesiastico «deve imparare e ascoltare il battito del cuore del suo popolo, sentire l’ “odore” degli uomini e delle donne di oggi fino a rimanere impregnato delle sue gioie e speranze, delle sue tristezze e angosce».
Ora, potrà sembrare irriverente la domanda, ma c’è chi se l’è posta: Francesco è populista? C’è chi lo sostiene. Per altri (la maggior parte, fortunatamente), il magistero papale è anzi un potente argine alla diffusione del populismo. Daniele Menozzi mette insieme indizi, documenti e dichiarazioni arrivando a scartare l’ipotesi di un eventuale «papa populista». Anzi. Sentite la viva voce di Bergoglio: «State attenti, perché il fenomeno culturale mondiale, diciamo almeno europeo, dei populismi cresce seminando paura» (alla diocesi di Roma, 9 maggio 2019); «È un pericolo di questo tempo della nostra civiltà: i particolarismi che diventano populismi e vogliono comandare e uniformare tutto» (ai vescovi orientali cattolici in Europa, 14 settembre 2019). In definitiva, il richiamo al popolo come elemento centrale del discorso pubblico di papa Francesco non giustifica in alcun modo la qualifica di «populista»; di più, il no al populismo come elemento disgregatore dei valori cristiani della convivenza civile è preciso e definitivo. È una risposta errata, contraria al cristianesimo.
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