Ricordando Mirella Freni

Riproponiamo l'intervista di Stefano Marchetti alla grande soprano scomparsa il 9 febbraio, pubblicata sul "Messaggero di sant'Antonio" di giugno 2013. Una delle ultime interviste rilasciate dall'artista.
10 Febbraio 2020 | di

Primadonna? No grazie. In più di cinquant'anni di carriera ha calcato i palcoscenici più luminosi, ha impersonato regine e principesse, ha ricevuto le onorificenze più ambite, perfino le chiavi della città di New York, «ma fuori dal palco sono sempre stata io, una figlia, una mamma, una nonna, una sorella. Non potevo certo portarmi la scena anche a casa», sorride Mirella Freni, soprano di fama internazionale, una voce straordinaria che ha attraversato la seconda metà del Novecento entrando nel nuovo millennio. Dal debutto nel 1955 al teatro Comunale di Modena, il suo percorso artistico l'ha resa praticamente leggendaria: ha cantato con bacchette mitiche come Herbert von Karajan, Carlos Kleiber e Claudio Abbado, è stata diretta da registi come Giorgio Strehler e Franco Zeffirelli, è stata protagonista di eventi straordinari con i mostri sacri, da Luciano Pavarotti, suo «fratello di latte», a Placido Domingo, ma non ha mai perso la capacità di essere soprattutto se stessa. «E anche se ho ricevuto proposte di ogni genere, non ho mai voluto abbandonare la mia terra, la mia Modena: qui c'erano e ci sono tutti i miei affetti», confida con la sua irresistibile amabilità. Ora ha lasciato la scena, ma non ha certo chiuso in un cassetto l'opera, e dirige i corsi di bel canto alla «sua» Accademia: ogni anno giovani di tutto il mondo fanno letteralmente a gara per conquistare uno dei (pochi) posti disponibili e poter apprendere da lei i segreti di un'arte tanto bella quanto esigente. La incontriamo nel salotto della sua casa modenese: alle pareti un autografo di Puccini, sui mobili le foto dei genitori, della famiglia, e di fronte a noi un'immagine sorridente di Nicolai Ghiaurov, grandissimo basso di origini bulgare (scomparso nel 2004) che con Mirella Freni ha condiviso più di vent'anni della vita.

Msa. Signora Freni, quando è nata in lei la passione per il canto? Freni. Già quando avevo due o tre anni, se la nonna ascoltava l'opera alla radio oppure da un disco io smettevo di giocare e correvo da lei. Dondolavo seguendo il ritmo. Ricordo poi che a cinque anni qualcuno mi chiese cosa volessi fare da grande e io risposi 'La cantante d'opera': mio padre mi diede uno scappellotto.

Però poi lei ha seguito il suo sogno... Sì, sentivo che sarebbe stata la mia vita. Uscivo da scuola e mi mettevo in fila al teatro Comunale con la nonna che mi portava in loggione e mi raccontava tutte le trame delle opere: le conosceva a memoria. Anche lei aveva una bella voce, ma non aveva potuto coltivarla: ha spronato me ad andare avanti.

Quali furono le difficoltà per iniziare? Eravamo una famiglia numerosa, il papà era partito per la guerra, la mamma lavorava alla Manifattura Tabacchi, ma il mio desiderio era cantare, sentivo che sarebbe stata la mia vita. E così da ragazzina mi sono arrangiata in ogni modo per poter prendere lezioni di canto e non pesare sulla famiglia: andavo anche a dare una mano a imbiancare le case.

E il debutto? Quella sera interpretavo Micaela nella Carmen di Bizet. Ero a Modena, nello stesso teatro dove io avevo assistito a tante opere, c'erano tutti i miei familiari in sala. L'emozione era fortissima, ma fui davvero accolta con grande affetto da tutto il pubblico. La nonna fu la più felice: per lei era come se io avessi realizzato anche il suo sogno.

Che cosa ha rappresentato il canto per lei? La gioia. Io non pensavo alla voce, non pensavo al successo, ma volevo davvero fare uscire quanto sentivo dentro, quello che potevo esprimere.  Certo, nella lirica occorrono tecnica e preparazione, un rigore ferreo, ma per me è stato sempre più importante interpretare, mettere me stessa nei ruoli che ero chiamata a eseguire.

Alla Scala lei ebbe un debutto... con sorpresa. Sì, eravamo nel 1962 e io stavo preparando il Serse alla Piccola Scala, ma durante le prove si ammalò la collega che stava interpretando Nannetta nel Falstaff di Verdi in sala Grande e quindi io venni chiamata a sostituirla da un giorno all'altro. La Scala poi è diventata come una seconda casa.

Qual è stato un incontro artistico importante? Sicuramente quello con Herbert von Karajan, esattamente cinquant'anni fa. Alla Scala dirigeva la Bohème con la regia di Franco Zeffirelli: Karajan non mi conosceva, anche se un suo amico mi aveva ascoltata in Spagna e gli aveva parlato di me con entusiasmo. Mi incuteva molta soggezione. Un giorno, in palcoscenico, durante le prime prove, mi chiese di seguirlo in camerino: era arrivato il momento della sua temutissima audizione. Si mise al pianoforte e mi fece eseguire l'ultimo atto, quello dove il soprano non esegue arie di spicco: evidentemente voleva verificare se io fossi capace di essere artista. Ho cantato, l'ho visto impallidire, e poi mi ha detto «Andiamo». «Dove, maestro?», gli ho chiesto. «Ma in teatro, no?». Avevo superato l'esame.

E come andò poi? Alla prima Karajan scoppiò in lacrime, mi abbracciò e mi disse «Ho pianto così solo quando è scomparsa mia mamma». È stato un onore lavorare con lui per più di vent'anni: fra noi c'è stata sempre un'intesa artistica molto forte, spesso capivo le sue intenzioni anche senza vederlo. Non le nascondo che questo mi ha procurato anche qualche invidia. Prima ero coccolata da tutti, poi sono iniziate anche ripicche, come immagino esistano in molti ambienti: all'inizio ci sono rimasta male, poi le ho affrontate senza fare drammi, con il mio carattere.

È stata definita la primadonna meno primadonna che sia mai salita su un palcoscenico. Si riconosce in questo ritratto? Vede, quando interpreto un'opera non sono più la Mirella, sono un personaggio, e lo faccio con gioia. Ma alla fine ritorno me stessa, mi piace il contatto con le persone, con la famiglia. Figuriamoci se posso mettermi a fare la diva. Anzi, le dirò che ho sempre amato cucinare, mettere a tavola amici e familiari, lavare i piatti, e anche se dovevo prendere un aereo non partivo mai da casa senza aver riordinato il letto. Sono sempre stata così, e in questo mi sento molto emiliana. 

Parliamo di Luciano Pavarotti: siete stati compagni di giochi, e poi vi siete ritrovati acclamati in palcoscenico. Che ricordo ha di lui?Con Lucianone siamo cresciuti insieme. Siamo nati a pochi mesi di distanza, e le nostre mamme lavoravano gomito a gomito alla Manifattura Tabacchi: qualcuno dice che una balia dava il latte a entrambi, ma è più che altro una simpatica leggenda. Di sicuro abbiamo fatto molta strada insieme, andavamo anche a lezione dal maestro Campogalliani a Mantova. Luciano guidava un'auto scassata, e tante volte mi toccava spingerla per farla ripartire. Luciano diceva sempre che io e lui eravamo come fratello e sorella, ed è proprio vero: grande amicizia e grande rispetto reciproco.

Lei però ha debuttato nel 1955, Pavarotti nel 1961... Sì, perché Luciano aiutava il papà fornaio e cantava con lui nella corale Rossini di Modena. Io lo incitavo a provare un percorso da solista ma all'inizio Luciano non se la sentiva. Finalmente si è convinto e ha avuto la carriera che si meritava.

Con Pavarotti lei è stata Mimì in tantissime Bohème. Qual è il personaggio che le è rimasto nel cuore? Mimì di sicuro è il ruolo a cui mi sento più affezionata. È stata proprio la Bohème a portarmi al grande pubblico. Ma ho amato tantissimo anche Fedora, un ruolo che non avrei mai pensato di interpretare, e le altre eroine che ho portato in scena negli anni più recenti, come Tatiana nell'Eugenio Onegin: ho dovuto studiare il russo per cantare quell'opera, ed è stata una sfida ulteriore che ho affrontato a carriera già avanzata. Ci ho messo anima e cuore.

Come ha deciso di lasciare la ribalta? Nel 2005, per il cinquantesimo di carriera, ho interpretato La Pulzella d'Orleans di Ciajkovskij a Washington: è stata l'ultima opera completa che ho eseguito in teatro. Una mattina mi sono guardata allo specchio e mi sono detta: «Non fare l'egoista»: ho avuto tanto, tutto, era arrivato il momento di dedicarsi sempre più ai giovani. Hanno continuato a invitarmi da ogni luogo, e ancora oggi ricevo molte proposte da tanti teatri. Ma adesso il mio impegno è indirizzato all'insegnamento.

Cosa chiede ai suoi allievi? Grande impegno, grande serietà. Devono imparare a liberare la loro voce, e poi devono studiare, studiare sempre. E poi insegno loro a condividere: anche noi, cantanti affermati, ci siamo sempre aiutati in palcoscenico.

E tra i suoi allievi, vede una futura Mirella Freni? Non ci voglio neppure pensare. Ognuno di loro deve avere la sua personalità, ed esprimere quello che sta vivendo. Se c'è talento, il resto viene da sé.

Che rapporto ha con la fede? Credo pienamente, e ringrazio Dio e la Madonna per i doni che mi hanno fatto. Nei momenti difficili mi rivolgo a loro e mi sento meglio. Non sempre sono stata una praticante assidua, ma sento che il Signore è presente nella mia vita.

Le manca il palcoscenico? No, perché in realtà ce l'ho ancora. Ho i «miei» ragazzi, e molti di loro già hanno importanti scritture in teatri di tutto il mondo. Perché dovrei cercare ancora di andare alla ribalta, quando posso aiutare gli altri?

 

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Data di aggiornamento: 10 Febbraio 2020

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