Santantoniodipadova, basta la parola
È facile che il primo e più comune e condiviso ricordo di un santo di nome Antoniodipadova sia legato a una madre, nonna, zia, vicina di casa che ha perso qualcosa e dice: «Bisogna dire i sequeri a sant’Antoniodipadova». C’è un mondo in questa frase. Sono donne a pronunciarla e bambini ad ascoltarla, perché nelle nostre case erano le donne ad avere memoria ben scolpita dei (pochi) beni posseduti e anche perché, se allora come oggi l’esercizio del potere religioso e delle teologiche dispute era saldo nelle mani degli uomini, la fede invece, che è quotidiano vivere accompagnati dal Signore, tranquillo custodire la sua presenza e far crescere questa presenza come un pane buono da distribuire in famiglia, era (forse è ancora) soprattutto qualità delle donne.
Antoniodipadova, pronunciato tutto una parola, era il santo dei giorni normali. Ogni giorno era il suo, anche se si sapeva che il 13 giugno c’era la processione alla Basilica, e che le uova andavano portate e benedette a Pasqua e c’era la zia che veniva ogni anno da lontano con un enorme cesto di uova sode che noi nipoti eravamo tenuti a sbucciare con cura «perché passasse meglio la benedizione», e non c’era verso, una volta cresciutelle le nipoti e un poco addottorate, di convincerla che se la benedizione di Dio sa creare una discendenza numerosa come le stelle del cielo, un guscio d’uovo non può farle ostacolo di sicuro.
Ma sant’Antonio è così, è questo santo meraviglioso e quotidiano, che si può invocare non solo per la grandezza dell’evangelica pecora smarrita, metafora dell’anima e della vita, ma anche per l’anello dimenticato chissadove, per l’indirizzo che si è riposto in luogo sicuro e chissà qual è, oppure, altro dolcissimo ricordo di bambina, per la bambola di pezza color rosa carne senza la quale non si può proprio dormire, che aveva certamente le gambe «vive», come diceva mia madre, e si nascondeva per dispetto negli angoli di casa o in campagna e proprio verso sera. Ma sant’Antonio c’era, e alla fine il sonno arrivava, insieme alla bambola, anche se il latino dei sequeri chissacosa voleva dire, perché il latino lo sapevano in pochi e nella devozione del popolo di Dio ogni preghiera veniva raccolta per assonanza con il parlato quotidiano e anche sequeri è la versione facilitata dell’antica invocazione antoniana Si quaeris miracula.
È questo lasciarsi in mille modi trasformare, appropriare, sminuzzare da chi lo invoca, uno dei tratti più belli di sant’Antonio, dottore della Chiesa, coltissimo e disseminato in ogni parte del mondo, portato non dalle crociate dei potenti, ma dagli umilissimi Tesini, venditori ambulanti del Trentino, ai quali i Remondini di Bassano, che erano stampatori eleganti e insieme abili commercianti, affidavano, affinché li vendessero, migliaia di copie di santini, tra i quali quello di sant’Antonio divenne subito tra i più richiesti, e loro andavano per il mondo, e poi tornavano e consigliavano agli stampatori degli adattamenti dell’iconografia del Santo, per renderla più famigliare ai diversi Paesi, e i Remondini eseguivano. Dove si volevano colori sgargianti provvedevano a festoni floreali, dove invece serviva più rigore, andavano di grigi e architetture.
E sant’Antoniodipadova faceva trovare le cose in ogni parte del mondo, i sequeri nella lingua chissacome modificata lui li capiva. Perché riparare le esistenze, aggiustare la fede, accompagnare ogni nostra vita nascosta in un qualche impronunciabile villaggio del mondo è la grandezza di questo Santo che trova le bambole con le gambe «vive» e intanto converte le vite sgangherate che a volte viviamo. Oppure, con nostro dolore, vivono le persone che amiamo.
Puoi leggere questo e gli altri articoli del numero di giugno 2020 sulla versione digitale del Messaggero di sant'Antonio!