Tutti pazzi per le serie (tv o non tv)
Quanto diceva il regista Dino Risi in un suo celebre aforisma: «La tv vive di cinema, ma il cinema muore di tv», rischia di peccare di obsolescenza. Oggi nella nostra società tra i media d’intrattenimento non troviamo unicamente i due mezzi del visivo per eccellenza del secolo scorso – il cinema e la televisione – ma anche internet, strumento in grado di soddisfare le esigenze bulimiche degli appassionati di cinema e di serie televisive.
Il segreto delle serie – tv o non tv – è racchiuso nella serialità stessa, cioè nella sua natura a episodi con trame semichiuse, personaggi solitamente fissi e set ricorrenti; il tutto condito e reso accattivante dall’ingrediente chiave, l’attesa di sapere ciò che può accadere nell’episodio successivo. Per questo gli abili sceneggiatori disseminano di indizi la puntata precedente, rimandando l’esito a quella successiva, per «incollare e fidelizzare» lo spettatore e ipotecare la longevità di un prodotto che può spalmarsi anche in una dozzina di stagioni. In fin dei conti chi si ricorda a che puntata è arrivata una tra le più note soap opera statunitensi, la tormentata saga della famiglia di stilisti, i Forrester in Beautiful (The Bold and the Beautiful, in onda dal 1987)? Altro fil rouge che unisce il «sistema seriale delle serie» è l’elevata qualità della scrittura e della produzione, affidata in alcuni casi a importanti nomi.
In Italia il fenomeno è stato importato dall’America e ha contagiato prima la televisione (Star Trek, I segreti di Twin Peaks, Will&Grace, Sex and the City, The Kennedys), poi ha avuto degli epigoni televisivi nostrani (Don Matteo, Gomorra, Braccialetti rossi, Il commissario Montalbano, I Cesaroni, Distretto di Polizia), infine ha dato vita a intere serie pensate per lo streaming, fruibili da qualsiasi dispositivo mobile. Tra i casi più recenti ricordiamo The young Pope, diretto da Paolo Sorrentino, con una prima stagione in dieci episodi; L’amica geniale di Saverio Costanzo, dal celebre romanzo omonimo della misteriosa Elena Ferrante e, in lavorazione, uno sceneggiato sul caso Cucchi per la regia di Daniele Vicari (il regista di Diaz – Don’t clean up this blood e di Prima che la notte), adattamento del libro di Carlo Bonini Il corpo del reato (Feltrinelli, 2016).
Ma sta davvero tutta qui la chiave del grande apprezzamento del pubblico nei confronti delle serie? «La forza del racconto è indubbiamente alla base di questo successo – spiega Gianluigi Attorre, autore, regista e presidente della società di produzione televisiva ATOMIC –. La trasversalità delle storie è tale da poter intrigare e agganciare audience diversissime e geograficamente lontane. E poi c’è la serialità della narrazione, costruita magistralmente, che fidelizza il pubblico, creando l’attesa: per questo la prima di una nuova stagione è vissuta ormai come un evento. Se poi si guardasse ancora di più alla realtà dei fatti, al nostro quotidiano, fonte inesauribile di ispirazione, sono certo che le serie sarebbero ancora più avvincenti. In fondo la serialità è ormai un modo di raccontarsi: oggi per fare delle serie basterebbe seguire le storie sui social».
Le «infinite puntate» nate per la tv, come abbiamo visto, si stanno sempre più diffondendo anche grazie alla modalità streaming. «Lo streaming – conferma Attorre – è la conditio sine qua non dell’audiovisivo e per le generazioni native digitali è ormai la fruizione primaria. Prima comandava chi aveva il telecomando in casa, ora ognuno è padrone del flusso». Insomma, al perché le serie riscuotano un così grande successo risponde la narratologia: il bisogno di storie è il fulcro per la creazione dell’identità del soggetto, dal momento che, attraverso la narrazione, favoriamo lo sviluppo delle funzioni linguistico-cognitive, riconosciamo e diamo un nome alle emozioni vissute e organizziamo le nostre conoscenze.
Michele Francesco Afferrante, giornalista, autore di importanti talk show – da Porta a Porta (Rai1) a Il Senso della Vita (Canale5) – e trasmissioni radiofoniche – da 3131 a Radio2 Days –, aggiunge elementi importanti circa il rapporto tra tv e settima arte. «Il grande cinema – sottolinea – si può permettere la stratificazione simbolica, costruita sul pensiero ramificato dell’autore, perché ha uno spettatore che volontariamente si reca in una sala cinematografica per vedere un testo filmico. Al cinema si va o, forse sarebbe meglio dire, si dovrebbe andare per fruire di un racconto complesso, strutturato su più livelli (pensiamo a 8½, capolavoro di Fellini), con lo stesso respiro delle grandi storie della letteratura o del teatro. Nel modus operandi della tv, invece, non c’è mai stata questa ambizione alla ricchezza espressiva articolata, è il mezzo stesso che non lo permette. La televisione deve essere sempre accessibile. L’immagine televisiva, infatti, deve catturare lo spettatore nella sua azione di zapping, quindi è come condannata alla superficie».
Cinema, dunque, come sinonimo di profondità e tv come elemento epidermico del visivo? «Sì – puntualizza Afferrante –, ma, negli ultimi anni, la situazione è cambiata: i film trasmessi da piattaforme quali Sky o Netflix permettono di selezionare e accedere ai contenuti in qualsiasi momento e anche di bloccare la fruizione per poi riprenderla. La tecnologia ha dunque cambiato il sistema di visione televisiva, aprendo un orizzonte inedito alla tv: la possibilità di proporre prodotti con una scrittura di grande qualità, perché il tempo a disposizione si è dilatato. Rispetto al film, le serie tv hanno “stagioni” nelle quali far evolvere i racconti e sviluppare i personaggi che acquistano, nel corso del tempo e degli episodi, una ricchezza di sfumature senza precedenti. Naturalmente quando gli sceneggiatori fanno un buon lavoro! E, poi, vale la pena di fare una piccola considerazione a margine: l’investimento sulle serie tv è sempre più consistente, con il risultato di attrarre grandi nomi del cinema che un tempo si sarebbero rifiutati di fare la televisione. Se prima il sogno dell’attore televisivo era quello di fare cinema, oggi molte star del grande schermo decidono di dedicare una buona parte del loro tempo alle serie tv».
Sotto i nostri occhi, insomma, da qualche anno sta avvenendo una piccola-grande rivoluzione non ancora compiuta: tutto è in movimento, si sta trasformando e riconfigurando. «Il cambiamento – prosegue Afferrante – è cominciato nei primi anni ’90. Il primo sperimentatore è stato David Lynch con I segreti di Twin Peaks, una serie di successo mondiale in cui il regista dimostrava una grande capacità di racconto e una straordinaria sensibilità di scavo dell’umano. Da quel momento il piccolo schermo ha iniziato a “invadere” il campo del grande schermo. La grande svolta, però, è avvenuta in questi ultimi anni. E più si va avanti più il livello qualitativo delle serie televisive si alza e si affina. Un perfetto esempio è Westworld - Dove tutto è concesso, tratto dal film del 1973 di Michael Crichton Il mondo dei robot. La serie, ideata da Jonathan Nolan, è perfetta fin dalla sigla: la storia è stata ripensata in chiave contemporanea, ambientandola in un mondo avveniristico in cui agiscono degli androidi ribelli».
A conti fatti, verrebbe da pensare che ci sia il rischio che la tv soppianti definitivamente il cinema. «No – taglia corto il giornalista –. Non credo che la televisione riuscirà a rubare l’anima al cinema che mantiene ancora una sua potenza “creatrice” e una sua “sacralità”: le immagini gigantesche, che ci dominano e ci illuminano dentro una sala cinematografica non hanno nulla a che vedere con le immagini (anche se sono in alta definizione, in 4K) trasmesse da una tv di ultima generazione. La fruizione televisiva casalinga, con l’infinita fonte di disattenzioni, è tutt’altro dall’esperienza immersiva, collettiva, profonda e sociale della sala buia cinematografica. Questo speciale luogo e questa singolare atmosfera suscitano, ancora e stranamente, forti emozioni. Naturalmente a procurarle sono le grandi e intramontabili pellicole. Sarò all’antica, ma la tv e, ancor più, lo streaming non riusciranno mai a ricreare questo unicum. Se il cinema è “splendore del vero”, è perché i grandi capolavori del cinema hanno compiuto (e compiono) uno svelamento della realtà a cui aggiungono un soffio di poeticità. Certi risultati apicali del cinema (penso ai film di Bergman, Tarkovskij, Kubrick, Fellini, Wenders), con buona probabilità, non verranno raggiunti dalla televisione, che però può aspirare a diventare (alcuni suoi prodotti di qualità, come detto, lo dimostrano) uno dei cardini della cultura contemporanea. Un prodotto audiovisivo di qualità è tale quando educa lo sguardo, ci insegna a leggere la complessità del reale. Un tempo solo il grande cinema offriva questa possibilità, ora non più. Oggi una serie tv può trasformare il piccolo schermo in un “piccolo grande schermo”».
L'articolo propone anche un approfondimento specifico sullo streaming. Per leggerlo integralmente prova la versione digitale del Messaggero di sant’Antonio.